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Per un sonetto 397

cesso a preti od a Vescovi. Finchè l’inscrizione posta là dove si amministra la Giustizia — La legge è uguale per tutti — non sarà vana frase che esprima un concetto caduto in desuetudine, eccomi qua a reclamarne l’applicazione eguale per tutti e, prima d’ogni altro, per me. Privilegi mai; ma l’intelligenza del Giudice non pesi colla stessa bilancia l’orpello del poeta e l’oro dell’omelia vescovile. Cerchi, vegga, penetri il senso non immediatamente accessibile che si contorce nella strettoia del verso e lo giudichi con più intellettuale e sagace criterio di quel che si usi per la prosa libera, meditata e misurata. Mi dica Ella, se adottata la poetica imagine del gregge, che è al postutto imagine del Vangelo, volendo dire che il Pastore vive umanamente delle prestazioni, spontanee o domandate, del gregge suo, potevo usare altra parola? Dovevo dire che vende le pecore, le macella, le scortica e le mangia? Sarebbe stato ben altrimenti grave, e non ingiuria e non diffama alcuno l’affermare invece per allegoria e per verità che il pastore ne vive: E di che vivrebbe dunque?

Non le nascondo l’ironia che sta sotto la parola. Le espressi già più sopra quel ch’io sento della questua insistente che si esercita in Faenza da Monsignore o da chi per Lui. Non le nascondo che proprio a questo alludono i due versi, ma torno sempre lì. Questo mio giudizio, se anche fosse errato, implica una disapprovazione mia della attività petitoria del Pastore, biasima quella mano sempre tesa o fatta tender da altri, per raccoglier moneta ma non si dice, non è detto e non dico che Monsi-