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e costole, e andò denso per l’aria uno spolverio di tritume di morti, che mi empì di bruscoli e di arena il mio occhio sinistro. Lo stroscio, che immenso rimbombava d’intorno, pareva quello che mandano le montagne di ghiaccio galleggianti quando spinte dalle correnti, urtandosi, si spaccano laggiù nelle regioni polari, secondochè aveva letto nei viaggi del capitano Parry; avvegnadio in coteste parti non fossi mai andato, epperò cotesto rumore non avessi mai udito.

Poffar di Bacco! urlarono i morti, oh non basta esser morti una volta? Oh! che figure sono elleno queste di persuaderci a rimontare a mosaico lo edifizio delle nostre ossa per isconbuiarcelo da capo? A petto del nostro il supplizio delle Danaidi era una galanteria. Meglio cento volte empire botti sfondate, che quest’angoscia di resucitare a mezzo, per ritornare poi a cascar morti sopra la bara.

Allora le mie ossa per memoria di certo gusto fracido, che, finchè vissi, mi diede infinita molestia, e fu di mettermi a repentaglio per tutti in mezzo ai mal passi, sollevarono la voce, e dissero: