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capitolo xxiii. 275


trecciandosi per di sopra, vi formano come una volta; quivi non penetra raggio di sole, e il buio vi dura tutto l’aimo fitto, sicchè ti sembra traversare una botte forata nelle viscere dei monti.

L’Erebo era ferito: il paragone del guerriero col costato trafitto da una freccia non farebbe al caso, però che dalla ferita del guerriero trabocchi fuori il sangue, mentre da quella del piroscafo l’acqua irrompe dentro gorgogliando: mentre l'Erebo si versa in cotesto terribile pericolo, ecco la Furia passargli da canto, strisciarlo come ad oltraggio e sparire via più ratto di saetta volante, urlando: urrà!

Curio aveva chiuso gli occhi mormorando: in manus tuas me commendo; quando li riaprì vide il diavolo del capitano al suo posto, che impartiva ordini con voce squillante, che parevano rintocchi di campana a martello; costui era caduto a capo fitto sul ponte, ma senza pur perdere tempo a riscontrare se si fosse slogato spalla o braccio, arrampicandosi su di una corda aveva ripreso il posto nel terrazzino: quinci in un battere di occhio conobbe come il timoniere, per colpa del fumo, perduta la vista della prua, avesse urtato sconciamente nel draft, e qualche tronco, sfondando le staminare, penetrato nel corpo; — si guarda attorno, e poi breve e vibrato:

— Attenzione per chi intende salvare la vita. — Fieno, cotone, tutto all’acqua...