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capitolo xxiii. 253


di Timone; e ormai diffido trovarne quaggiù meglio nè peggio, sicchè vorrei insalutato hospite uscirmene da questo mondo, dove non mi trattiene più. nulla.1

— Nulla! Nè anche la vista di quel superbo alligatore, che steso supino costà su i giunchi del fiume si gode la benedizione dei raggi del sole?

— Non gode, bensì si travaglia inebetito di ripienezza a cagione della strage menata stamani di chi sa quante creature viventi. Ma sta’ tranquillo, o coccodrillo, a te non può mancare il regno dei cieli, perchè ti scusano la fame, lo istinto della tua conservazione e la mancanza d’intelletto, mentre noi abbiamo visto l’uomo mosso a malfare per vanità, per ferocia, per avarizia, insomma per colpa di spirito viziato, non già per bisogno del corpo: noi viviamo in società con gli uomini come i cuochi in cucina presso la stia, per avere i polli sottomano onde arrostirli; meglio coccodrilli, che uomini.

— Ecco, vedi. Curio mio, io giudico che un di-

  1. Così racconta Plutarco nella vita di Antonio, § 48: «Narrasi che un giorno in cui gli ateniesi stavano raccolti in assemblea, Timone, salito su la ringhiera, tale favellasse in mezzo al silenzio universale e alla aspettazione di tutti per simile novità. — Io possiedo, atenitfesi, un orticello, dove mi nacque un fico, al quale si sono già impiccati parecchi cittadini: ora essendo io in procinto di fabbricare in cotesto luogo, ho voluto prima significarvelo pubblicamente, acciocchè se qualcheduno avesse pur voglia impiccarcisi, non metta tempo in mezzo per farlo innanzi che e’ venga tagliato; Dio vi mandi il malanno a quanti siete.