Pagina:Guerrazzi - Il secolo che muore III.djvu/277


capitolo xviii. 275


dioma latino nel sermone nostro; — però, come a tutti apparisce, così non parve al signor Giulio Janin, che ci fa sapere come l’Alfieri convertisse codesto panegirico in una satira scritta in latino, dove si compiace denigrare quanto di grande fu operato nello imperio del magnanimo Traiano. — Le sono cose da non credersi! Ma che non è lecito a monsieur Janin, il quale ci racconta nei suoi viaggi in Italia, nella foresta dei cipressi del camposanto di Pisa avere udito il fiotto del mare, mentre la spiaggia del Gombo dista almeno tre miglia, e dei cipressi ne ha due; uno in cima, l’altro in fondo al quadrilatero, come l’alfa e l’omega sopra le lapide delle sue sepolture. Quasi tutti i francesi nei giorni della nostra sventura ci dileggiarono o c’infamarono; in quelli del risorgimento ci astiarono e ci astiano; quasi tutti gli italiani nei giorni della sventura dei francesi augurano a loro sorti meno triste, mente migliore.

E come ti basterebbe l’animo di dimenticare il buon Martino della Torre, il quale, vinti per virtù di arme i Ghibellini suoi nemici, non sofiferse si mettessero a morte i prigioni; «perchè, egli diceva, non essendomi venuto fatto di dare la vita ad alcuno, nè manco voglio che a veruno sia tolta?» In coscienza non lo potresti dimenticare, non fosse altro per confrontarlo al Thiers, uomo civile di questo secolo civilissimo, il quale, comecchè orbo di figli