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capitolo xv. 11


avere buscato più torzoli che soldi, smise, e, sovvenuto da un suo dotto conterraneo, dopo luoghi studi apprese i misteri tutti dell’arte del materassaio, la quale alfine gli increbbe, sentendosi chiamato dalla natura a tosare, non a battere la lana: gli riuscì entrare nella Borsa come custode; e qui parve proprio che la fortuna a un tratto lo tirasse su pel ciuffo, ed ecco come andò la cosa: un tal sensale di un tal quale ministro smarrì una cedola della Banca Nazionale da lire mille; ora il nostro uomo, il dì veniente, mettendo in sesto la Borsa, rinvenne il biglietto: egli si guardò attorno, si accertò essere solo, e, calandosi giù, e da sparvier lo ghermì e se lo pose in tasca. Ripostolo in tasca e continuando a menare la granata, mulinava fra sè: «Lo piglio o non lo piglio? Veruno ti vide; bisogno ne hai; dunque piglialo. Ma mille lire non mi fanno mica mutare stato: mille lire, a sfondare, mi frutteranno settanta, ottanta lire l’anno; non ci entra nemmanco l’acquavite e l’assenzio, mentre se lo rendo, mi acquisterò fama di galantuomo, la quale fama mettendo a interesse in mano alla furberia ci è caso che mi apra la strada a guadagnare mille per la via diritta ed altrettante per la via storta. Bisogna renderlo. Nella stagione dei ladri, cani e galantuomini costano un occhio». In questo modo l’anima o quella cosa in lui che aveva virtù di pensare, gli ciondolava per guisa che, immemore di quanto si facesse, stropicciò con la granata