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238 ATTO QUARTO
Zeontippo. La debil vista di vecchiezza è frutto.

Or ti ravviso. Ah mio Talete, il Cielo
Stanco tem’io di custodir l’arcano.
Nicandro è in Corte; lo conosci; il fato
Delle gelose nostre cure ad onta
Lo avvicina alla madre, e ai Dei non piaccia
Che il minaccioso oracolo s’avveri.
L’ha veduto Artemisia?
Talete.   Il vide, e parve
La sua pietade un amoroso incanto.
Zeontippo. Oh loquace natura! Oh forza ignota
Di recondito amor! Ma dove il prence
Ritrovare poss’io?
Talete.   Noi so; poc’anzi
La regina confusa Euriso pianse
Miseri giorni ad incontrar condotto.
Zeontippo. Numi, il tristo presagio ah non si compia!
Fin che lungi alla madre il figlio visse,
Fu remoto il periglio; or si avvicina
La temuta sventura; e quanto meno
Si conoscon fra lor, maggior può farsi
L’onta fatal del minacciato amore.
M’inspira il Ciel; vuo’ palesar l’arcano.
Riconoscansi entrambi, e il buon consiglio
Vaglia la forza ad evitar de’ fati.
Dove Nicandro rintracciar si puote?
Talete. La regina il saprà. Se l’uso adempie,
Verrà la tomba a visitar fra l’ombre
Della notte vicina. Al regio piede
Ti condurrò.
Zeontippo.   Vogliano i Dei pietosi
Che opportuno riparo a recar venga.
Talete. Vien meco al tempio, e narrami in qual guisa
Celar potesti per tanti anni il prence.
Zeontippo. Oh lagrimosa, miserabil vita