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312 ATTO TERZO

Fulgenzio. Io sono stato a Genova in vita di vostro zio e dopo la di lui morte, e so quel che c’è e che non c’è. Il ministro vi mangia tutto, e giacchè per l’incuria vostra non ne ricavate profitto alcuno, fate così: assegnate in dote a vostra figliuola i beni che avete in Genova, lo farò che il signor Leonardo li accetti e se ne contenti. Andrà egli ad abitare in Genova colla consorte, maneggierà uxorio nomine quegli effetti, non li potrà consumare o disperdere, perchè saranno ipotecati alla dote; e per dirvela schiettamente, a voi non rendono nulla, e a lui sul fatto, con un poco di direzione, possono rendere il doppio di quello che gli renderebbero gli ottomila scudi in Livorno. Ah! cosa dite?

Filippo. Bene, benissimo, glieli do volentieri. Vadano a Genova; se li godano in pace, rendano quel che san rendere, non ci penso. Fate voi, mi rimetto in voi.

Fulgenzio. Non occorr’altro. Lasciate operare a me.

Filippo. Ehi! dite: non si potrebbe vedere di obbligare Leonardo a mandarmi qualche cesta di maccheroni?

Fulgenzio. Sì, vi manderà delle paste quante volete, dei canditi di Genova, delle melarancie di Portogallo.

Filippo. Oh! che le melarancie mi piacciono tanto. Oh! che mi piacciono tanto i canditi. La cosa è fatta.

Fulgenzio. È fatta dunque.

Filippo. È fattissima.

Fulgenzio. E vostra figlia sarà poi contenta?

Filippo. Questo è il diavolo.

Fulgenzio. Ma voi non avete animo di farla fare a modo vostro?

Filippo. Non ci sono avvezzo.

Fulgenzio. Questa volta dovete farlo.

Filippo. Lo farò.

Fulgenzio. Si tratta di tutto.

Filippo. Lo farò, vi dico, lo farò.

Fulgenzio. Quando le parlerete?

Filippo. Ora, in questo momento. Vado immediatamente: aspet-