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412 ATTO TERZO
Ma quella diavolaccia di femmina insolente,

Farà tutti gli sforzi perchè non nasca niente,
O farà tanto in lungo andar la conclusione,
Che mi farà crepare innanzi la stagione.
Lo stato in cui mi trovo, sollecita mi rende;
La mia consolazione da voi solo dipende.
S’è ver che voi mi amate, lasciate ogni riguardo.
Dorotea. Siete, se non lo fate, un amator bastardo.
Giuseppina. V’era bisogno adesso d’un’insolenza inclusa?
Dorotea. Non si finisce bene, senza un poco di chiusa.
Fulgenzio. Ho capito, signora, e del mio amore in segno,
Quando che più vi piaccia, darvi la man m’impegno.
(a Giuseppina)
Dorotea. Anche adesso?
Fulgenzio.   Anche adesso.
Dorotea.   Ora sì, e prima no?
Fulgenzio. Quel ch’io pria non sapeva, or dal suo labbro io so.
Dorotea. Ma guardate, se siete propriamente un balordo;
Non ve l’ho detto anch’io? perchè faceste il sordo?
Fulgenzio. Signora Dorotea, parlando in guisa tale,
S’io fìngo d’esser sordo, mi pare il minor male.
Dorotea. (Che ti venga la rabbia!) (da sè)
Fulgenzio.   Or vi darei la mano.
Ma cotesta signora...
Dorotea.   Sentite che villano.
Ancor ch’io m’affatico, che faccio quel che faccio,
Ardisce un’insolenza di dirmi sul mostaccio?
Cosa pretendereste? che una fanciulla onesta
Senza di alcun parente facesse una tal festa?
Sono sua zia, signore, e abbiate convenienza,
E date alla nipote la mano in mia presenza.
Fulgenzio. (Ma che parlar gentile!) (da sè)
Giuseppina.   Fulgenzio, se mi amate,
Sollecitiam, vi prego.
Fulgenzio.   Farò quel che bramate.