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L'AMANTE DI SÈ MEDESIMO 481
Alberto. Oh signora, signora! Cossa andeu signorando?

No me fe stomeghezzi; moleghe, o che ve mando.
Conte. Donna Bianca sa bene, per lei se ho dell’affetto.
Bianca. Trattenermi non posso. (mette il fazzoletto agli occhi)
Alberto.   Mo zo quel fazzoletto.
(piano a donna Bianca)
Conte. Ma le sarà anche noto il mio temperamento.
Che il sospettare a torto suol fare il mio tormento;
E credere non posso, che vantisi d’amarmi,
Chi senza fondamento congiura a tormentarmi.
Io son di un cuor sì tenero, che i pianti, che i sospiri
Mi toccano le fibre, mi portano ai deliri;
E per non comparire ridicolo ed insano,
Fo sforzi di natura, mi struggo e mi allontano.
Alberto. Sentela? (a donna Bianca)
Bianca.   Non credeavi signor sì bilioso.
Alberto. Da cosa vien sta bile? Da un cuor che xe amoroso.
(a donna Bianca)
No xe vero? (al Conte)
Conte.   Sì certo; ho un cuor di una tal pasta...
Sono sì delicato... non sta a me dirlo... basta.
Alberto. Qua no ghe xe bisogno de barattar parole.
Vu diseghene cento, ghe ne vôi dir do sole.
Ghe voleu ben, sior Conte?
Conte.   Altri che lei non amo.
Alberto. Ghe voleu ben, patrona?
Bianca.   Altri che lui non bramo.
Alberto. Donca non occorr’altro. Son un amigo onesto.
Mi ho fatto el mio dover: tocca a vualtri el resto. (parte)

SCENA VI.

Il Conte e donna Bianca.

Conte. Avete ancor scacciato dal sen quel rio timore,

Che mi tormenta l’anima?
Bianca.   Parlate con amore.

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