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LA DONNA STRAVAGANTE 265
Livia. Piangea nel dirlo?

Cecchino.   E come! Dille, che più sdegnato
Non mi averà il suo cuore, che scorgesi umiliato.
Livia. Umiliato il cuor mio? (sdegnosa)
Cecchino.   Così dicea, signora.
Livia. No, non sarò, qual crede, umiliata ancora.
Cecchino. Dille, soggiunse poi, che serbo a lei la fede,
E che mi avrà ben tosto la mia tiranna al piede.
Livia. Ecco, quel ch’io attendeva. La solita sua stima.
Verrà al mio piè prostrato. Perchè non dirlo in prima?
Sì, sì, m’apposi al vero, conosco il mio potere;
Le chiavi della vita ho in man del Cavaliere.
Più non mi fugge, il veggo. Ma se irrirarlo io torno?...
Venir disse al mio piede, pria che sparisca il giorno?
Cecchino. Chi sa ch’egli a quest’ora non siasi incamminato?
Livia. Ah, qual sarà il mio giubbilo, se veggolo prostrato!
Pentomi dell’insania, che al marchese Liuto
Mi feo sì ingiustamente offrir qualche tributo.
Fu la disperazione, che mossemi a gradirlo.
Misero don Rinaldo! ah, non dovea tradirlo.
Compenserò ben tanto il duol de’ miei disprezzi....
Ma coll’amante, o cuore, non profondiamo i vezzi.
Volare ad un estremo dall’altro non si faccia;
Dalla tempesta orribile non passi alla bonaccia.
Tempri un po’ di rigore il tenero desio.
Già son di lui sicura; già il di lui core è mio. (parte)

Fine dell’Atto Quarto.