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IL RAGGIRATORE 193


Arlecchino. L’ha dito una sentenza da Ciceron.

Claudia. (Resto attonita, non so parlare). (da sè)

Arlecchino. Lustrissima, me esebisso mi de esser e! so cavalier. (a donna Claudia)

Metilde. Povera me! sono rovinata. Se non posso averlo come il conte Nestore, mi contenterei di averlo anche come Pasquale.

Arlecchino. Co l’è cussì, la fazza capital de Arlecchin. (a donna Metilde)

Claudia. Ecco il frutto della vostra condotta. (a don Eraclio)

Eraclio. A me rimproveri? Chi faceva le grazie al Conte, io, o voi?

Claudia. Avete ragione; non so che dire. Fra le vostre e le mie pazzie ci siamo entrambi precipitati.

Eraclio. Signor Dottore, che sarà di me povero cavaliere?

Dottore. Male assai, il palazzo è perduto.

Eraclio. Dove andrò a ricoverarmi?

Arlecchino. V’insegnerò mi un logo seguro, un logo comodo.

Eraclio. Dove mai?

Arlecchino. All’ospeal dei matti.

Eraclio. Ah sì, mi rimprovera ognuno con ragione. L’ospedale de’ pazzi è luogo degno di me; luogo degno di un povero prosontuoso, che cercando nobilitarsi colla vanità del passato, si è rovinato in presente, e lo sarà peggio ancora nell’avvenire. Prendano esempio da me i pazzi gloriosi, che chi si crede di essere più di quello ch’egli è, si riduce alla fine nella dispezione in cui sono, ridicolo, miserabile, maltrattato e schernito.

Fine della Commedia.