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58 ATTO TERZO
V’insegnerò di lei, e d’un figliuol che ha seco,

Quel che dovete dire. Andiam. Venite meco.
Gianfranco. Ma la compagna mia?
Marchese.   Lasciatela per poco.
La dama è in questa casa; presto facciamo il gioco.
V informerò di tutto ben bene nel cammino,
E voi comparirete bravissimo indovino.
Gianfranco. Signor, da quel ch’io vedo, sarete persuaso.
Che senza tali aiuti noi favelliamo a caso.
Anche la nostra è un’arte che vien dall’impostura;
Che il ver colla menzogna di colorir procura.
Che fa, come tant’altre, i suoi castelli in aria,
Ma è meno fortunata, perch’è men necessaria.
Dì più non vo’ spiegarmi. Chi è astrologo, indovina.
(da se)
Marchese. Non so se dire intenda di legge o medicina.

SCENA V.

Lisaura, poi don Alessandro.

Lisaura. Parte, sola mi lascia, e non mi dice nulla.

È vero ch’io non sono sì timida fanciulla;
Ma il Cavalier, se torna e trovami soletta?
Anch’io saprò narrargli qualch’altra favoletta.
Alessandro. Bellissima Lisaura.
Lisaura.   Oh mio signor, chi vedo?
Alessandro. Voi siete qui?
Lisaura.   Ci sono.
Alessandro.   Sogno? veglio? o travedo?
Lisaura. Si signore, son io; mi avete ritrovata
Alfin, dopo tre anni che mi avete piantata.
Alessandro. Bella, vi chiedo scusa. Confesso il proprio errore:
Noi padroni non siamo talor del nostro cuore.
Veduto ho una bellezza che m’ha colpito il seno:
D’amarla e di seguirla non potei far a meno.