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388 ATTO QUINTO
Ditelo per ischerno ai popoli nemici:

La gloria de’ Romani è l’essere infelici.
Vanta Atene gli atleti nell’olimpico agone;
Qui vantasi l’orgoglio di vincer la passione.
Il pugno, il cesto, il disco altrui servon di giuoco;
Qui l’anime diletta ferro, veleno e foco.
Ma se di gloria carche van l’anime latine,
E vergini e matrone son femmine eroine,
Noi pur della virtute sappiamo usar i modi,
Odiar d’Africa l’arte, odiar le greche frodi;
Sappiam nostre sventure mirar con ciglio lieto.
(Andiam, cuore infelice, a fremere in segreto).
(da se, indi parte)

SCENA X.

Lucano, Terenzio, Creusa, Lelio, Fabio e Damone.

Terenzio. (Cela negli aspri detti sdegno, vendetta, orgoglio), (da sè)

Damone. (Anche la volpe dice, quando non può, non voglio), (da sè)
Creusa. Alto signor, che al mondo sei di pietate esempio, (a Lucano)
Degno che a te fra i numi ergasi in Roma un tempio,
(Parlo con cuor sincero, che i titoli son vani
Dati al popolo greco dai rapitor Troiani):
Grata al tuo don, se al piede laccio vil non m’aggrava,
Di te l’alma onorata sempre fia serva e schiava.
Di me, de’ figli miei, di lui ch’ave il mio cuore,
Sarai, più che non fosti, l’amabile signore.
E a tua virtù più dolce recar potran diletto
Anime a te soggette per obbligo ed affetto.
So con chi parlo. In seno vil desio non contrasta...
Lucano. Non cimentar, Creusa...
Creusa.   Non avvilirti...
Lucano.   Basta.
Terenzio. Basta, gentil Creusa, grazie per me si renda,
Da me d’entrambi ai doni gratitudine attenda.
Andiam l’avolo afflitto a sollevar di pene.