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358 ATTO TERZO
Terenzio. (Preso ho affè questa fiata lucciole per lanterne). (da sè)

Lucano. Rispondimi, Creusa: stanca sei coi disprezzi
Pagar1 chi studia e pena a meritar tuoi vezzi?
Terenzio. (Che mai dirà?) (da sè)
Creusa.   Signore, mio cuor sempre è lo stesso;
Quel che poc’anzi ho detto, posso ridirti adesso.
Lucano. Se di Terenzio invano ti lusingasti, osserva:
Libero, e a Livia sposo, sprezza te greca e serva.
Creusa. (Barbaro!) (da sè)
Terenzio.   (Sventurata! Or comprendo l'errore), (da sè)
Lucano. Dille tu, s’io mentisco. (a Terenzio)
Terenzio.   Non mente un senatore.
Lucano. (D’un più discreto amore l’esempio egli ti reca), (a Creusa)
Creusa. Da un African l’esempio sdegna un’anima greca.
Lucano. Tu, se ’l mio ben ti cale, se aneli alla mia pace,
Modera quell’ingrata nel disprezzarmi audace.
Cerca ragion che vaglia a impietosirle il seno;
Per quel che a te donai, poss’io chiederti meno?
Vo ad affrettar la pompa che far ti dee romano,
Vo in tuo favor di Livia lieto a dispor la mano.
Fa tu che quell’altera dal cuor non mi discacci. (a Terenzio)
Tu pensa a compiacermi, o a raddoppiar tuoi lacci.
(a Creusa, indi parte)

SCENA XII.

Terenzio e Creusa.

Terenzio. (Come con lei scolparmi?) (da sè)

Creusa.   (Che potrà dir l’ingrato?) (da sè)
Terenzio. Ah Creusa, che pensi?
Creusa.   Mai non ti avessi amato.
Terenzio. Non aspettar che parli teco a prò di Lucano.
Creusa. Per lui, per te mi parla, meco favelli invano.

  1. Così è da correggere il testo: v. anche l’ed. Le Monnier curata dal Nocchi. Tutte le edizioni del Settecento stampano pregar.