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100 ATTO TERZO


Questo, signor Pantalone, è il maggior dispiacere che dato mi abbiate, dopo che siete mio marito.

Pantalone. Vegnì qua, ho bisogno de vu.

Eufemia. Non merito certamente di essere così trattata.

Pantalone. Finimola, ve digo. Ho bisogno de vu.

Eufemia. Soffrirò tutto; ma non mi toccate nell’onore.

Pantalone. L’onor semo in procinto de perderlo, se no se demo le man d’attorno.

Eufemia. Come! vi è qualche cosa di nuovo?

Pantalone. Ghe xe che certi baroni, fursi in vendetta de no aver mi serrà un occhio, per rabbia de no poder cicisbear co mia muggier, i vol véderme precipita.

Eufemia. Voi non ci avete colpa; son io che non voglio codesti ganimedi d’intorno.

Pantalone. La conclusion xe questa, i m’ha accusà... Baroni! I xe andai a dir che fazzo pegni, che togo l’usura, che compro la roba con inganno, che inchieto el gran, e altre falsità de sta sorte!

Eufemia. Dunque non vi accusano per la moglie.

Pantalone. Qua bisogna remediar: se no, va la reputazion, va la roba, i bezzi, e per conseguenza la vita.

Eufemia. Rimediateci dunque.

Pantalone. Ho bisogno de vu.

Eufemia. Eccomi; che posso fare io povera donna?

Pantalone. Cognosseu el sior Pandolfi, auditor della Vicarìa?

Eufemia. Lo conosco. È un amico di mio padre.

Pantalone. Nol vegniva in casa, quando geri putta?

Eufemia. Sì, ci veniva.

Pantalone. El sarà stà anca elo uno dei vostri adoratori.

Eufemia. Appena gli parlavo, lo salutavo appena.

Pantalone. Za, chi ve sente vu, no avè praticà nissun.

Eufemia. E chi sente voi, sono stata di mal costume.

Pantalone. Lassemo andar. Ho bisogno della protezion del sior auditor. Mi no gh’ho mai parlà, e no voggio andar senza un poco d’introduzion. Vu che lo conossè, vu me podè introdur.