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cese! Rosaura, acquacheta anche in mezzo alla sua straordinaria semplicità, non interessa e non diverte; Beatrice la ripetizione d’altre Beatrici goldoniane che «Agrippine borghesi, non rifuggono sempre dal delitto per conseguire i loro scopi» (Rabany, op. cit, p. 213). E non s’intende bene come le nozze precipitate fra questa Beatrice e il rapitore della sua figliuola dovessero bastare ad attutire lo scandalo. Ma forse, anche senza che ci abbia pensato l’autore, ai trascorsi del dissoluto Lelio non vi potea essere castigo più efficace di questo matrimonio con la nuova Agrippina. Almeno di ciò la morale poteva esser paga. Non la censura però, se a Milano, durante il governo napoleonico, questo lavoro venne proibito (Paglicci-Brozzi, La politica di C. G., Scena illustr. Firenze, 1888, n. 23); nè altra ragione s’indovina se non il ratto con supposta verisimile seduzione.

Ma i difetti non tolsero ammiratori alla commedia. Al «bel Tutore» accenna Pietro Verri nel suo noto poemetto (La vera commedia. Le comm. d. dott. C. G. Torino, Fantino e Olzati, 1758, tomo XII, p. IO); alla «bellezza di questa commedia» il Montucci, senza per questo smettere la mala abitudine di «correggere» a suo arbitrio (Scelta completa ecc. Lipsia, 1828, vol. I.° p. 183). Felicissimo sembra ad altri il contrasto fra i due tutori (Bibliothek der schönen Wissenschaften, Lipsia, 1758 III, 2 p. 234). E la figura del poltrone inspira a Ignazio Ciampi (La vita artistica di C. G. Roma, 1860. p. 62 segg.) un paragone fra Ottavio e quel Belacqua dantesco ch’era, secondo l’Anon. fiorent., «il più pigro uomo che fosse mai; et si dice di lui ch’egli venia la mattina a bottega, et ponevasi a sedere, et mai non si levava se non quando voleva ire a desinare et a dormire». Ma che immenso distacco tra i versi dell’Alighieri e il crudo realismo del Goldoni! Questi espone senza pietà il suo indolente al dileggio; Dante che di Belacqua «fu forte... dimestico» ne descrive la beata ignavia con una nota di simpatia. Sorride bonario il poeta; sorride chi ascolta.

Solo dei benefizi morali che dal lavoro poteano venire dice la Premessa; non in che conto l’avesse l’autore come opera d’arte. Le Memorie l’ignorano affatto. Un unico laconico accenno è in una lettera del 7 ottobre 1752 all’Arconati-Visconti: «Al nostro Sant’Angelo si diede principio con il Tutore, e la seconda sera si pose in scena la Serva amorosa» (Spinelli, Fogli, ecc. p. 20). S’era rappresentato la prima volta colà, dietro l’ed. Bettinelli, il 4 gennaio del 1752 e replicato sette sere; confermano questa data le ediz. Pasquali e Zatta dove si legge carnovale dell’Anno MDCCLI (m. v. con tutta probabilità). Il 1753 dei Papenni è errore, reso evidente dal passo della lettera ora citato. Aggiunge ancora l’ed. Bettinelli: «In ogni altra Piazza fu ricevuta, e gradita con gloria del di lei Autore». L’ebbero nel loro repertorio più compagnie. Resta ricordo di recite a Modena nel 1756 e nel 1774 (Modena a C. G., 1907, pp. 237, 240), a Firenze nel 1778 e ’79 (Corsini, Ottave ecc., cfr. Nota al Servitore di due padroni e Rasi, I comici italiani, v. I, pag. 703). Dagli spogli diligenti dell’Ortolani s’apprende che il 21 nov. 1815 la Compagnia Fabbrichesi la diede al Nuovo Anfiteatro o Arena di S. M. Zobenigo (Giornale di Venezia), e il 6 ottobre 1819 la Compagnia Vestri e Venier di nuovo al S. Benedetto (Gazzetta privilegiata di Venezia). Taciuto al solito in tutte queste notizie il nome dell’autore, ch’era con ogni verisimiglianza il