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sentare l’artista nella sua meravigliosa officina, fa sì che il G. rimpicciolisca l’eroe invece che levarlo ben alto. E certo questo intendeva. Intenzione, nulla più. Idealizzare la figura non rispondeva neanche alle qualità peculiari dell’arte sua. Quanto poteva fece, e gli sforzi non vanno più in là della veste. Bandì le maschere, mantenne la scena stabile e, per la prima volta nelle commedie del riformatore, alla prosa sostituì il verso: quel verso nel quale Molière aveva composto il Tartufo e il Misantropo. Più avventurato di Pier Jacopo Martelli (1663 - 1727) che al metro, nuovo nella letteratura drammatica nostra, diede il suo nome e, a giudizio del Carducci, vi fece pure egli stesso miglior prova che non gl’imitatori (Nuove poesie. Imola, 1873. p. 126), il Goldoni in questo suo tentativo incontrò inaudito favore presso le platee, presso i cultori di Talia e d’altre muse. Non mancarono, s’intende neanche gli oppositori. S’accese allora tra gli oziosi della vasta repubblica letteraria una vivace polemica intomo al nuovo verso (A. Galletti. Le teorie drammatiche e la tragedia in Italia nel secolo XVIII, Cremona, 1901, p. 129). Per lunghi anni il Gold. dovette, esempio al Chiari e ad altri, secondare il gusto del pubblico. Diede così al martelliano più di trenta commedie. «Co’ denti, co’ piedi, e colle mani, | Formansi versi detti Martelliani» scriveva Carlo Gozzi (La Tartana degl’influssi ecc. Parigi, 1 757, p. 58) e coi granelleschi suoi compagni prevedeva di sentir presto «i cani | Baiar anch’essi i versi martelliani» (Sommi - Picenardi. Un rivale del Goldoni, ecc. Milano, 1902, p. 72). Gasparo in lettera del 2 ottobre 1754 scriveva a Stelio Mastraca: «Tutto il mondo e versi martelliani... i bottai sotto le vostre finestre battono in tuono di verso martelliano e fino l’azione del procreare si comanderà con bolla o decreto che sia fatta sull’armonia martelliana» (cit. dal Galletti, p. 131). Ma dello stesso Gozzi sono assai note anche le lodi date a questo verso (cfr. Ach. Neri. Aneddoti Goldon., Ancona, 1883, p. 30). G. B. Vicini chiedeva — sempre in versi martelliani — a gran voce questo metro per le scene, perchè «non troppo in alto si tiene, | Nè men troppo serpeggia sopra le umili arene» (Della vera poesia teatrale. Epistole poetiche. ecc. Modana, [1754], p. 17) Fra gli entusiasti il Goldoni in verità non era. Ne fan fede la dedica di questa commedia e quanto ripetè più tardi nell’autobiografìa (Mém. P. 1, c. XVIII). Al nuovo metro, saltellante e monotono, s’era acconciato a malincuore e pur nella questione generale, tanto dibattuta, se alla scena comica convenisse più il verso o la prosa, s’era messo apertamente — nel Teatro comico (V: Vol. IV a pag. 68, in nota) — tra i fautori della prosa. Ma quelle poche battute nell’ediz. Pasquali non si leggono più; certo perchè al Goldoni parvero troppo recisamente contraddire alla pratica da lui più tardi largamente esercitata. (M. Ortiz. Commedie esotiche del G. Nap. 1905, p. 44 e segg.; G. e Maffei. Strenna [Rachitici] 1907, Venezia, p. 55).

Le notizie della dedicatoria sul!’ottimo esito del Moliere a Torino e a Venezia, sono ampiamente confermate da quanto ne scrive l’a. a Giovanni Colombo (ded. d. D. volubile cit.), dalle Memorie (l. cit.), dalla premessa al Terenzio e da una oreve nota del Medebac (ediz. Bettin. cit), che accenna pure al bellissimo successo di Bologna. Il Goldoni che di questo suo lavoro, quasi esponente d’un nuovo indirizzo dato all’arte sua, doveva compiacersi assai, nel viaggio di ritorno a Venezia, volle leggerlo, a Modena, al march.