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288 ATTO TERZO

Eugenio. Via, acchetatevi; aspettiamo un poco.

Vittoria. Ridolfo, non avete uno specchio? Vorrei un poco vedere come sto.

Don Marzio. (Suo marito le avrà guastato il tuppè). (da sè, coll’occhialetto)

Ridolfo. Se si vuol guardar nello specchio, andiamo qui sopra nei camerini del giuoco.

Eugenio. No, là dentro non vi metto più piede.

Ridolfo. Non sa la nuova? Pandolfo è ito prigione.

Eugenio. Sì? Se lo merita. Briccone! Me ne ha mangiati tanti.

Vittoria. Andiamo, caro consorte1.

Eugenio. Quando non vi è nessuno, andiamo.

Vittoria. Così arruffata, non mi posso vedere. (entra nella bottega del giuoco, con allegria)

Eugenio. Poverina! Giubila dalla consolazione! (entra, come sopra)

Ridolfo. Vengo ancor io a servirli. (entra, come sopra)

SCENA XIX.

Don Marzio, poi Leandro e Placida.


Don Marzio. Io so perchè Eugenio è tornato in pace con sua moglie. Egli è fallito, e non ha più da vivere. La moglie è giovane e bella... Non l’ha pensata male, e Ridolfo gli farà il mezzano.

Leandro. Andiamo dunque alla locanda, a prendere il vostro piccolo bagaglio. (uscendo dal barbiere)

Placida. Caro marito, avete avuto tanto cuore di abbandonarmi?

Leandro. Via, non ne parliamo più. Vi prometto di cambiar vita.

Placida. Lo voglia il cielo. (s’avvicinano alla locanda)

Don Marzio. Servo di vossustrissima, signor Conte. (a Leandro, burlandolo)

Leandro. Riverisco il signor protettore, il signor buona lingua.

Don Marzio. M’inchino alla signora Contessa. (a Placida, deridendola)

  1. Bett.: Andiamo, marito?