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116 parte prima


anello di prezzo: essa lo ricusa. Poco tempo dopo il procuratore del Prodigo torna da Venezia con la lieta nuova al cliente della vincita di una lite. L’uomo generoso vuol dimostrare in qualche modo il suo giubilo, il suo contento, e non avendo danaro, regala al procuratore l’anello: egli l’accetta, e se ne va. In questo mentre la signorina è consigliata ad aggradire il regalo per impedir così, che il giovane stolto non se ne disfaccia male a proposito. Essa torna; tien discorso sull’anello, e fa le sue scuse per averlo ricusato, non avendo potuto riceverlo senza il dovuto permesso che aveva appunto ottenuto. Ahimè! l’anello non vi era più; ed ecco l’amante nella massima desolazione, ecco il Prodigo disperato. Che turbamento! che imbroglio! È questo uno di quei felici colpi di scena, che divertono gli spettatori, che producono vicende e conducono con la massima naturalezza l’azione al suo scioglimento. Correva voce che una tale avventura fosse succeduta a un personaggio di alta condizione, al quale io professava molte particolari obbligazioni. Per buona sorte questo signore non se ne accorse, o finse di non accorgersene. A lui pure stavano a cuore i miei felici successi, e la mia composizione avendo avuto un’ottima riuscita, n’era contento al par di me. Il Prodigo andò in scena per venti sere di seguito, e lo accompagnò l’istessa buona sorte anche nella sua replica nel carnevale; ma i personaggi da maschera si lagnavano fortemente di me, perchè non dava loro da occuparsi, anzi contribuivo alla loro rovina, e molti dilettanti e protettori li sostenevano. Dopo tali lagnanze, e in conseguenza della condotta propostami, diedi al principio dell’anno comico una commedia a soggetto intitolata: Le trentadue disgrazie di Arlecchino. Il Sacchi era quegli che doveva eseguirla in Venezia, onde ero sicurissimo del buon esito. Questo attore, conosciuto sul teatro italiano sotto il nome di Truffaldino, aggiungeva alle grazie naturali e proprie della sua parte, uno studio continuato sull’arte comica e sui differenti teatri dell’Europa. Antonio Sacchi possedeva una viva e rara immaginazione, e recitava a maraviglia le commedie dell’arte; laddove gli altri arlecchini non facevano che ripetere le stesse cose, egli, internato sempre nel fondo della scena, per mezzo di facezie affatto nuove e inaspettate risposte, manteneva sempre viva la rappresentazione, sicchè si accorreva da ogni parte in folla per sentire il Sacchi. I suoi tratti comici e le sue lepidezze, non eran tratte dal linguaggio del popolo, nè da quello dei commedianti. Aveva messi a contribuzione gli autori comici, i poeti, gli oratori, i filosofi; si udivano, nelle di lui parti all’improvviso, pensieri degni di Seneca, di Cicerone, del Montaigne; ed aveva l’arte di appropriare in modo le massime di quei grand’uomini alla semplicità del carattere del balordo, che la proposizione istessa, degna di ammirazione nell’autor serio, faceva sommamente ridere, quando veniva dalla bocca di questo attore eccellente. Parlo del Sacchi come appunto parlerei di un uomo che è già esistito; poichè, a motivo della sua età tanto avanzata, altro non rimane all’Italia, se non se il rammarico di averlo perduto, senza speranza, di poter vedere riempito il suo posto. La mia rappresentazione, sostenuta dall’attore di cui fo menzione, ebbe tutto il buon successo che una commedia a soggetto poteva avere. Tutti i dilettanti delle maschere e degl’intrecci a braccia erano contenti di me, e conobbero che nelle mie trentadue disgrazie vi era più condotta e senso comune, che nelle commedie dell’arte. Osservando che il maggior diletto della mia composizione resultava dagli accidenti da me ammassati gli uni so-