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GOGOL

le fasciature delle sue ferite; le gettò via, mentre voleva dir forte chi sa che, e invece proferiva voci sconnesse; la febbre e il delirio lo sopraffecero di nuovo, e vennero fuori discorsi senza senso e senza alcun legame logico. Ma frattanto l’amico fedele gli stava accanto, lo sgridava e gli scagliava senza risparmio le piú atroci ingiurie e i piú aspri rimproveri. Da ultimo, lo prese per le mani e per i piedi, lo fasciò come un bambino, gli rimise a posto le fasciature, lo avviluppò in una pelle di bue, lo legò in un involucro di corteccia di tiglio e, assicuratolo con funi sulla sella, si rimise con lui in cammino.

— Magari morto, ma ti porterò via! Non permetterò che i Ljachi oltraggino il tuo lignaggio cosacco, che facciano a pezzi il tuo corpo e poi lo gettino a fiume. Sia magari un’aquila che venga a strappare gli occhi dalla tua fronte, ma sia l’aquila nostra della steppa e non un’aquila polacca, che spicca il suo volo dalla terra dei Ljachi. Magari morto, ti porterò fino in Ucraina!

Cosí diceva il compagno fedele. Cavalcò senza respiro giorno e notte, e lo trasportò senza che egli desse segno di vita, fino alla Sjec dei Saporogini. Là si diede tutto a curarlo con erbe e fomenti; trovò una certa ebrea esperta, che


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