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— Un impiegato.

— Fate aspettare. Occupato. Manca tempo per ricevere.

L’alto personaggio mentiva. Niente gl’impediva di accordar l’udienza richiesta. Egli e l’amico avevano già esauriti tutti i soggetti di conversazione. Già più d’una volta il loro colloquio era stato interrotto da lunghe pause, in capo alle quali s’erano alzati l’uno e l’altro, picchiandosi famigliarmente sulla spalla:

— Ed ecco, mio caro.

— Eh! sì, Stefano.

Ma il direttore generale non voleva ricevere il sollecitatore, per far sentire tutta la sua importanza all’amico che aveva lasciato il servizio e abitava la campagna, e per fargli comprendere che gli impiegati dovevano aspettare lungamente ritti in anticamera, finchè piacesse a lui d’accoglierli.

Finalmente, dopo molti altri dialoghi e molte altre pause, durante le quali i due amici, stesi nelle poltrone, mandavano al soffitto il fumo dei sigari, il direttore generale si ricordò a un tratto che gli avevano chiesto udienza.

Chiamò il segretario che stava sull’uscio e gli ordinò di far entrare il sollecitatore.

Quando vide Akaki, dall’aspetto umile, dalla vecchia uniforme consumata, avvicinarglisi, si volse bruscamente verso di lui e con modo rude:

— Cosa volete?

La sua voce era ancor più severa del solito ed egli cercava di darle un’intonazione ancora più vibrante, perchè erano otto giorni che si esercitava dinanzi allo specchio.

Il timido Akaki si trovò completamente schiacciato sotto questa rude apostrofe. Pure, fece uno sforzo per riprendere il suo sangue freddo, per raccontare come, dove e quando gli avevano rubato l’uniforme, non senza ornare la sua narrazione di molti dettagli oziosi. Aggiunse che si era rivolto a Sua Eccellenza nella speranza che, grazie a quest’alta e benevola protezione presso il Presidente della polizia o presso altre autorità superiori, potesse tornar in possesso del suo vestito.

Il direttore generale trovò questo passo molto poco burocratico: