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«perchè io stessi disegnando la loro fortezza?» gli risposi modestamente, che io non scorgevo punto una fortezza, in quelle vecchie mura. Loro feci osservare come queste, come la torre parimenti, cadessero in rovina, come il castello non avesse neanco porte, come difettasse di guardie, di tutto quanto costituisce propriamente una fortezza; come io non avessi creduto disegnare altro, che una rovina.

Mi si rispose: E quando anche fosse solo una rovina, che cosa poteva presentare questa di pregevole? Mirando a guadagnare tempo, ed acquistare favore, risposi che dovevano pur sapere come molti viaggiatori venissero in Italia unicamente per contemplarvi rovine; come Roma, capitale del mondo distrutta dai barbari, fosse piena tutta di rovine, le quali erano state disegnate le cento, le mille volte; come fra le rovine dell’antichità, nessuna ve ne fosse in istato di più perfetta conservazione che l’anfiteatro o l’arena di Verona, che io speravo di vedere pure fra breve.

Il podestà il quale stava davanti a me, immerso in profonde riflessioni, era uomo di alta statura, di corporatura abbastanza complessa, e dell’età all’incirca di trent’anni. I tratti ottusi della sua fisonomia, priva del lampo dell’intelligenza, corrispondevano appieno alla lentezza colla quale porgeva le sue domande. L’attuario per contro, basso di statura e disinvolto, pareva alquanto imbarazzato a sua volta, nel caso affatto nuovo in cui si trovava mescolato. Continuavo a parlare come avevo cominciato, mi sembrava che mi si desse volontieri ascolto, e mi parve rilevare dall’aspetto benevolo, di varie donne specialmente, che le mie parole avessero prodotta buona impressione.

Allorquando poi feci menzione dell’anfiteatro di Verona al quale si dà nome in queste contrade di Arena, l’attuario, il quale intanto si era rinfrancato, disse, che le mie osservazioni calzavano bensì a penello per quell’antico monumento conosciuto in tutto il mondo, ma che nulla avevano a fare con queste rovine, le quali nulla offeri-