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In mare, martedì 15 maggio 1787.

Finora tutte le mie speranze di arrivare questa volta più presto a Napoli, ovvero di essere libero prima del male di mare sono svanite. Tentai parecchie volte, sostenuto da Kniep, di salire sul ponte, ma non vi potevo godere di nulla, e non era che per pochi istanti che riuscivo a dimenticare le mie vertigini. Tutto il cielo era velato di nuvole bianche vaporose, ed il sole attraverso di quelle senza che si potesse scorgere il suo disco, illuminava il mare della più bella tinta azurrina celestre che si possa immaginare. Tenevano dietro al legno schiere di delfini nuotando e spiccando salti di continuo, e mi pareva vedessero in fondo alle acque, e scorgessero di lontano ogni piccolo punto nero, il quale promettesse offerire loro una preda. A bordo non venivano considerati già quali compagni di viaggio, ma bensì quali nemici; ne venne ferito uno con un colpo di arpone, ma non si riuscì ad estrarlo dalle acque.

Il vento continuava ad essere contrario, e correndo bordate di continuo, facevamo pure poca strada. Alcuni viaggiatori esperti non erano tranquilli; dicevano che nè il capitano nè il piloto conoscevano molto il loro mestiere; che quegli poteva bensì valere per un armatore, e questi per un marinaro, ma che non erano adatti a provvedere alla sicurezza di tante persone, e di tante sostanze.

Cercai persuadere quella brava gente a tenere nascosta la loro preoccupazione. Eravamo molti passeggieri a bordo, e fra questi donne e ragazzi di tutte le età, imperocchè tutti erano andati a gara nel salire sopra un legno francese per godere la protezione della bandiera bianca contro i corsari barbareschi, senza pensare ad altro. Rappresentai che il dubbio avrebbe funestato l’animo di tutte quelle persone le quali finora scorgevano la loro salvezza in quel semplice drappo bianco scevro da qualunque stemma.

E difatti un cencio bianco fra cielo e mare, si può