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scomparve ai nostri occhi il Vesuvio, mentre vedevamo tuttora Ischia ed il Capo Minerva, che perdemmo di vista verso sera. Il sole scese in mare circondato di nuvole, segnando una larga striscia della lunghezza di parecchie miglia, di una splendida tinta purpurea. Kniep volle disegnare pure questo fenomemo. Oramai non si scorgeva più terra, tutt’intorno all’orizzonte, non si vedeva più che mare; la notte era chiara, e splendeva bellissima la luna.

Pur troppo io non potei godere che per pochi istanti di quel bello spettacolo, essendo stato colto dal mal di mare. Dovetti scendere nel mio camerino, sdraiarmi sul letto, astenendomi da qualunque cibo e da qualunque bevanda, ad eccezione di poco pane bianco, e vino rosso, e me la passai ancora discretamente. Estraneo a tutto il mondo esteriore, ridotto all’unica occupazione di pensare, procurai assegnarmi un compito, per non lasciare vagare di troppo l’imaginazione. Di tutti i miei scritti non avevo portato meco in mare che i due primi atti del mio Tasso, dettati in prosa poetica. Quei due atti pressochè simili nei pensieri e nello svolgimento al dramma attuale, ma scritti un dieci anni prima, porgevano un non so chè di debole, di nebuloso, il quale non tardò a scomparire, quando badando più alla forma che alla sostanza, attesi a verseggiarli.


Sabbato 31 marzo.

Il sole uscì chiaro e limpido, dal mare. Verso le sette raggiungemmo una nave francese, la quale era partita due giorni prima di noi, la qual cosa ci provò, che il nostro legno era migliore veliero d’assai, ma intanto non ci accorgevamo ancora, di potere toccare al termine del nostro viaggio. Ci recò qualche conforto la vista dell’isola d’Ustica, che pur troppo ci fù forza lasciare alla nostra sinistra, allo stesso modo che avevamo dovuto prima lasciare Capri alla nostra destra. Intanto il mare era ingrossato, ed a bordo, tutti, più o meno soffrivano.

Io continuavo a starmene sdraiato, verseggiando per