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mio buon genio, di avere potuto vedere con i miei propri occhi quelle rovine così ben conservate, di cui nessun disegno, od incisione vale a dare idea esatta e precisa. Difatti, disegnate architettonicamente, appaiono più svelte; disegnate in prospettiva sembrano più tozze, e soltanto coll’osservarle da vicino, col girare in mezzo a quei ruderi, è possibile comprenderne il vero carattere, indagare quale sia stato il pensiero dell’architetto, quale lo scopo che si proponeva. Passai per tal guisa tutta la giornata, mentre Kniep attendeva assiduamente a suoi disegni; ed io mi rallegravo di non avere più a pensare a quel particolare, e di essere sicuro di portar meco ricordi ben migliori, di quelli che sarei stato capace eseguire io stesso. Disgraziatamente non vi era mezzo di passare colà la notte; ci fù forza ritornare a Salerno, di dove il mattino seguente ripartimmo per Napoli. Vedemmo da tergo il Vesuvio sorgere in una contrada fertilissima, e sul davanti la strada fiancheggiata da pioppi colossali, quadro graziosissimo, che sostammo alcun poco ad ammirare.

Giunti sulla vetta di una collina, ci si offrì allo sguardo una vista propriamente meravigliosa. Napoli in tutta la sua magnificenza; le case di questo le quali si stendevano per la lunghezza di parecchie miglia sulla riviera del golfo; i promontori, le lingue di terra, le rupi; e finalmente le isole, ed al di là di queste il mare, nella sua splendidezza ed immensità.

Tutto ad un tratto fui disturbato, e quasi spaventato da una voce orribile, o per dir meglio da un urlo ovvero grido di gioia, del ragazzo che stava dietro il nostro veicolo. Mi volsi con impeto verso di lui, che era buonissimo giovane, al quale non avevamo avuta occasione ancora di fare un rimprovero.

Tacque per un istante, quindi mi battè leggermente sulla spalla, e stendendo il suo braccio destro fra noi, coll’indice teso in direzione della città, disse «Signore perdonate; questa è la mia patria!» Con queste parole mi recò sorpresa una seconda volta, ed a me, povero


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