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satire 45


L’onor già fui de’ Cicisbèi Lombardi:
Nella città di Giano il fior dell’arte
Imparai ne’ miei primi anni gagliardi.
Finch’io potei compir la intera parte
Di Cavalier Serv’-ama-onni-bastante,
Eran mie glorie in tutta Italia sparte:
Ma poichè il lungo donnëare infrante
Ebbemi l’armi, e gioventù si tacque,
Spine trovai dov’eran rose avante.
Giovin ti paio, e fan parermi l’acque
Con che i solchi innaffiando il volto appiano;
Ma mia beltà, pria che tu fossi, nacque.
Or odi il viver mio s’è tristo e strano,
Da ch’io, tornato in grazia coi mariti,
Son tra i Serventi il Cavalier Decano.
Intronato l’orecchio dai garriti
Ch’odo la sera dalla dolce Dama,
M’alzo il mattino a nuovi oltraggi e liti:
E corro in fretta a lei, che nulla m’ama,
Ma un po’ mi soffre per velar gli astuti
Suoi raggiretti che torrianle fama.
Non gliela tolgo io, no, che dai canuti
Parenti suoi son giudicato degno
D’insegnarle del mondo le virtuti.
E ciò più fammi del suo amore indegno;
Ch’oltre all’esser maturo, esser concesso,
Frutto non son da femminile ingegno.
Ad ogni suo voler pronto e sommesso,
Mezza grazia appo lei così ritrovo:
Ma far mi tocca amari uffici spesso.
Ogni giorno mi nasce un dover nuovo;
Andar, venir, portar, cercar, condurre;
E sempre udirmi dir ch’io non mi muovo.
E guardi il Ciel, se avvien ch’io ne susurre;
Tosto veggio infiammarsi in fuoco d’ira
Le non benigne a me pupille azzurre.
Nè già il mio cor per lei d’amor sospira:
Ma il mio decoro vuol che alla più bella
Io serva, e l’ozio innato a ciò mi tira.
Fra me bestemmio la mia fera stella:
Ma con gli altri, orgoglioso di mia sorte,
Braccier mi vanto dell’ammorbatella.
Il vedi omai, che ai mali miei sol morte
Dar può fine. Su, via, dammela tosto:
O ch’io me stesso ucciderò da forte.