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minore ma senza offesa della mansuetudine, le franchigie dei popoli e i santi diritti della nazione.

«Volevamo noi combattere contro gli austriaci o contro gl’italiani? L’intervento nella Toscana avrebbe potuto implicarci in lotte men brevi e men facili che dapprincipio non paia. I romani non imprendevano le guerre che ad una ad una; Napoleone quando stimò poterne rompere due fu disfatto»1. Le guerre non si moltiplicano come i fatti d’arme e le poste campali, e la guerra è sempre una quando le varie fazioni collimano allo stesso scopo. I repubblicani francesi del secolo andato non credevano di accumulare piú guerre resistendo insieme ai collegati e ai propri ribelli, anzi stimavano di contrapporsi agli uni mentre impedivano agli altri d’ imperversare. E com’essi facevano contro i re nemici, debellando i ritrosi della Vandea e di Lione che colle loro sommosse li favorivano; cosi noi avremmo incominciato a vincere l’imperatore in Livorno, tenendo a freno quei pochi che gli fornivano il pretesto di occuparlo. Il combattere contro coloro che ci tiravano l’avversario nel cuore metteva ancora piú conto che il cacciarlo dalle frontiere; e la Toscana sedata, come ho giá detto, equivaleva a una riscossa sul vincitore. I romani antichi e il Buonaparte usarono felicemente le guerre di diversione, come quando gli uni portavano le loro armi in Affrica mentre aveano Annibaie alle porte, e l’altro faceva assalir l’Austria tra il Reno e il Danubio, calando egli stesso a sfidarla in Marengo. La diversion di Toscana faceva con mezzi diversi lo stesso effetto, levando ai nemici l’occasione di allargarsi in Italia, e non interrompeva la campagna lombarda (che non era ancor cominciata) ma le dava principio ben auguroso.

«Non vi fu mai transazione diplomatica di questo genere per cui fosse certo che, andandosi da noi o in Toscana od in Roma, gli austriaci si astenessero da profittare dell’indebolimento del nostro esercito per camminare per Torino, Alessandria e



  1. Risposta dei cessati ministri alla relazione del generale maggiore Alberto Chrzanowski , Torino, i849, pp. i9, 20.