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libro secondo - capitolo terzo 281


cosa infatti può essere piú nociva al suo buon nome e a quello del sovrano suo interprete che il rendere infelicissima la piú illustre delle nazioni? L’essenza del dogma cristiano risiede nell’armonia rifatta del cielo colla terra; e ogni qual volta tale armonia si rompe e la religione si fa autrice e mallevadrice di miseria terrena, non a uno o pochi uomini e di passata ma a tutto un popolo e sempre, egli è impossibile che nel conflitto il cielo non sia perditore, ché la virtú dei martiri non è cosa dei piú. L’osservanza de’ chierici presso il volgo dipende dalla bontá loro, e il mondo è d’accordo col Machiavelli a «stimar poco chi vive e regna come i prelati»1. Mentre i teologi con sollecita industria pongono in luce quegli argomenti che persuadono la fede, non è forse meno utile il dichiarare i fatti che la screditano; e fra i momenti che si possono chiamare d’«incredulitá», il dominio ecclesiastico è uno dei principali. La santitá è dote propria della Chiesa e la piú efficace, perché meglio espugna i voleri e rapisce la meraviglia. Ma come la Chiesa può dirsi santa, se tal non è il suo capo e il suo cuore? e come Roma, benché santa in effetto, può apparir tale ai volgari, se coloro che la reggono ci dánno gli esempi piú profani di violenza e di corruttela? se i costumi vi son piú guasti, le leggi piú insensate, i consigli piú inetti, i governi piú iniqui e crudeli che nei paesi barbari e idolatri? se Roma cristiana la cede in bontá a Roma paganica nei tempi del suo fiore? se dove questa era mansueta ai deboli, terribile ai potenti2, equa ai popoli ed ai principi, vendicatrice della giustizia, l’altra suol fare tutto il contrario? Riscontrate i Camilli, i Fabrizi, i Regoli, i Catoni, gli Antonini colla piú parte dei moderni prelati per ciò che riguarda le virtú private e civili; e ditemi per vostra fede a chi tocchi di vergognarsi. Il dogma non convince senza la morale, e il primo insegnamento di questa è l’esempio. Or se Roma non dá buoni esempi, come può essere la «luce del



  1. Disc., i, 27.
  2. «Parcere subiectis et debellare superbos» (Virg., Æn. , vi, 854 ). «Imperet, bellante prior, iacentem ❘ lenis in hostem» (Hor., Carm. saec., 5i-2).