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mai di gran tratto la linea dei segnalati, atteso quella legge di natura per cui «le cose nostre, nascendo il piú delle volte da principi deboli e bassi, si sollievano ed ingagliardiscono appoco appoco; ma come elle sono al colmo dello arco, irreparabilissimamente danno la volta e col tempo mancano in tutto»1.

Le illustri successioni sono forse piú corte ai di nostri che negli antichi per l’uso invalso di scomunare i maritaggi, vedendosi per esperienza che la mescolanza delle razze le migliora e il divorzio le imbastardisce. I principi europei non si apparentano che fra di loro e fanno, come dire, una tribú o casta sequestrata da tutte le altre; onde succede loro come alle caste dei secoli antichi, che dopo un certo fiorire imbozzacchivano e perdevano i loro pregi. Imperocché la potenza non dura a lungo scompagnata dal valore; il che si verifica sovrattutto nei principi, perché l’altezza straordinaria del grado reale rende piú cospicua, offensiva e malefica l’inettitudine o mediocritá dell’uomo. Onde Isocrate scrive che «il regno non è, come il sacerdozio, cosa da tutti, quando ella è la maggiore di tutte le cose umane e quella che ricerca maggior provvidenza e senno»2. E Aristotile insegna che «il principato è solo di nome se non si fonda nella maggiore eccellenza di chi regna»3; di che séguita che «il principe dovrebbe sempre essere superiore ai sudditi per le facoltá naturali»4, giacché, «possedendo un’autoritá grande, egli riesce pericoloso quando è uomo mediocre»5. E sebbene il difetto sia piú tollerabile nelle monarchie civili che nelle assolute, tuttavia è grave e di pericolo eziandio rispetto a quelle, per le ragioni che toccheremo altrove. Oggi l’imperizia dei capi è tanto piú insopportabile quanto piú crebbero nei sudditi colla cultura le cognizioni, essendo cosa troppo mostruosa che la testa ubbidisca e comandino i piedi. Giá infino dai tempi biblici i



  1. Stor., 3.
  2. Disc. del princ. (traduzione del Leopardi).
  3. Polit., vi, 2, 2.
  4. Ibid., i, 5. 2.
  5. Ibid., ii, 8, 2.