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libro primo - capitolo nono 239


e avendo al pelo un esercito devotissimo al principe e inferocito dalla vittoria. Né mi si opponga che sei mesi appresso io rigettai l’assemblea costituente col voto libero bandita in Toscana; giacché i luoghi, i tempi, le condizioni erano diverse. Trattavasi di popolazioni in parte animate da altri sensi che le lombarde, era cresciuta e ingagliardita la fazione dei puritani dianzi debolissima, Pio e Leopoldo erano profughi, l’Italia del mezzo in trambusto, menomato il nome e il credito di Carlo Alberto, prostrate dai disastri le armi sarde che al principio della campagna erano intatte e fiorenti.

Queste considerazioni quadrano pure all’articolo della capitale, essendo cosa nota che i milanesi consentivano a Torino di buon animo il mantenimento dell’antico onore. Né era verosimile che, liberata l’Italia principalmente col sangue e coi sudori dei piemontesi e avvalorato il lor desiderio dal buon successo della guerra, i lombardoveneti volessero privarli di un bene che possedevano. Ma facciamo che per ragioni politiche, fondate sul sito, la dovizia, la grandezza, Milano fosse eletta a capo e reggia del nuovo Stato: non dovea forse la vecchia metropoli rassegnarsi di buon grado al bene comune? Dunque se l’Italia potesse unirsi in un solo corpo, Torino non cederebbe a Roma? e posporrebbe la nazionalitá italica all’amor proprio municipale? Ovvero l’instituzione di un regno dell’alta Italia non era di peso bastevole a persuader la rinunzia? Calunnia i torinesi chi attribuisce alla cittadinanza l’egoismo di una setta. Tanto piú che la perdita avrebbe avuto largo e sicuro compenso, perché di commerci, d’industrie, di opulenza, di agi, di delizie, di gentilezze, la seconda cittá del nuovo avrebbe vinta la prima dell’antico regno. Piú le sarebbe giovato il valicare le Alpi Cozie colla celeritá del vapore che non l’aver tra le sue mura una piccola corte e un erario insufficiente alle grandi spese. L’egoismo municipale non è men cieco che ingiusto, poiché ignora l’accordo naturale degl’interessi (che è la base dell’economia civile) e non vede che l’union nazionale, essendo lo stato perfetto dei popoli, porta seco il ristoro dei danni inevitabili e restituisce con usura da una mano ciò che toglie dall’altra.