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individualitá propria, tanto è debole il concetto della nazionalitá comune; onde in vece di subordinare gl’interessi propri ai comuni, ella misura l’Italia e il mondo dalla Sicilia1. Io voglio sperare che queste false preoccupazioni sieno per dileguarsi; imperocché qual sorte potrebbe salvare i popoli ingegnosi e prodi, ove si trascurino gli ammaestramenti dell’esperienza e della sventura? Se lo scisma delle due provincie fu testé di gravissimo pregiudizio, quali effetti non farebbe per l’avvenire, mentre veggiam tutta Europa congiurata contro l’Italia con maggiori forze di quelle che cancellarono il romano imperio dal novero delle nazioni?

  1. Il divorzio da Napoli non fu il solo danno che venne alla causa italica da quelle parti. Quando la societá federativa di Torino mise in carta il suo programma, convenendo premettere il novero dei vari domini, Francesco Ferrara propose che la Sicilia fosse menzionata disgiuntamente da Napoli e si passasse in silenzio il regno dell’alta Italia. La singolare proposta diede stupore a me e a tutti i soci e fu facile il combatterla; ma per contentare i due soli siciliani che sedevano nel consesso, i piú elessero una via di mezzo e, mantenendo il nuovo Stato settentrionale, consentirono a registrar la Sicilia come distinta dal Regno. Condiscendenza amichevole ma imprudente e che ebbe cattivi effetti. Imperocché sebbene gli atti del congresso, come di adunanza privata, non avessero alcun valore politico, essi tuttavia poteano giovare o nuocere al credito dei cooperatori. Io n’era stato eletto presidente; e benché il governo napoletano non ignorasse che il partito del Ferrara fu da me contraddetto e che io mi opposi del pari alle focose improntitudini di qualche altro membro, tuttavia la complicitá apparente gli forní il pretesto di collocarmi nella schiera dei perturbatori, come apparisce da un atto recente di pubblica accusa (Atto di accusa nella causa degli avvenimenti politici del 15 maggio 1848, Napoli, 1851, p. 26). Del quale però io non mi dolgo, poiché ci sono accoppiato ai nobili e cari nomi del Leopardi, del Massari, del Romeo, dello Spaventa e di altri che nel congresso difesero valentemente l’unione di Sicilia con Napoli. Ma io ebbi bensí a rammaricarmi che il detto programma vie piú inasprisse Ferdinando contro il Piemonte e cooperasse a rendere inutili le pratiche che io feci, divenuto ministro. Né il Ferrara stette pago a viziare il concetto fondamentale della societá federativa e a farne un fomite di discordia fra i due estremi della penisola; ma poiché non avea potuto cassar dai preamboli di essa societá il regno dell’alta Italia, volle almeno combatterlo sui giornali, patrocinando eziandio a tal effetto la mediazione che era il modo piú acconcio a sventarlo. Ricordando questo fatto, io non intendo d’imputare al signor Ferrara un error comune a molti de’ suoi cittadini, ma solo d’inferirne quanto sia pericoloso nelle cose di Stato il governarsi colla stregua municipale. Imperocché non solo egli mostrò d’ignorare la natura del nostro Risorgimento e le leggi che doveano guidarlo, ma per uggia che si formasse in Italia uno Stato assai piú vasto e forte della sua isola e un nocciolo di futura unitá italica, predicò una politica che in vece di salvar la Sicilia l’involse irreparabilmente nella sciagura comune.