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dell'impero romano cap. xli. 437

chine di guerra ostili. Tale fu la perdita e la costernazione de’ Goti, che dopo quel giorno l’assedio di Roma degenerò in un tedioso e indolente blocco; e furono essi continuamente inquietati dal Generale Romano, che in frequenti scaramucce distrusse più di cinquemila uomini delle loro più valorose truppe. La cavalleria de’ Goti non era pratica nell’uso dell’arco; i loro arcieri militavano a piedi; e questa forza così divisa non fu capace di contendere co’ loro avversari, le lancie ed i dardi de’ quali erano ugualmente formidabili sì da lontano che da vicino. La consumata perizia di Belisario gli faceva abbracciar tutte le occasioni favorevoli; e siccome sceglieva il luogo ed il momento, insisteva nell’attacco o suonava la ritirata a proposito1, così rare volte gli squadroni, ch’ei distaccava, ebber cattivo successo. Questi particolari vantaggi sparsero un impaziente ardore fra i soldati, ed il Popolo che principiava a sentir gl’incomodi dell’assedio, ed a non curare i pericoli d’una mischia generale. Ogni plebeo s’immaginò d’essere un eroe, e l’infanteria, che dopo la decadenza della disciplina erasi rigettata dalla linea di battaglia, aspirava agli antichi onori della legione Romana. Belisario lodò il coraggio delle sue truppe, condannò la lor presunzione, cedè a’ loro clamori e preparò i rimedi d’una disfatta, la possibilità della quale egli solo ebbe il

  1. Per la trombetta Romana, ed i suoi vari segnali si consulti Lipsio De militia Romana (Opp. Tom. III L. IV Dial. X p. 125, 129). Una maniera di distinguer l’attacco per mezzo d’una trombetta a cavallo di solido bronzo, e la ritirata per mezzo d’una trombetta a piedi di cuoio e di legno leggiero, fa commendata da Procopio, e adottata da Belisario.