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dell'impero romano cap. xxviii. 365

che ha domandato agli altari degli Dei, dee sembrare sempre più prudente consiglio quello di persistere nella medesima pratica salutare, senza correr gl’ignoti rischi, che posson seguire una precipitosa innovazione. Fu applicato il testimonio dell’antichità e del successo con singolar vantaggio alla Religione di Numa; e Roma stessa, qual celeste Genio, che presedeva al destino della città, fu introdotta dall’Oratore a difendere la propria causa avanti al Tribunale degli Imperatori. „Egregi Principi, (dice la venerabil Matrona) Padri della patria, abbiate compassione della mia età, che finora è passata in un continuo corso di opere pie. Poichè non ne son io malcontenta, permettetemi di continuar nella pratica degli antichi miei riti. Poichè son nata libera, concedetemi di godere i miei domestici instituti. Questa religione ha ridotto il Mondo sotto alle mie leggi. Questi riti hanno rispinto Annibale dalla città, ed i Galli dal Campidoglio. Era la mia canuta chioma riserbata a tal intollerabil disgrazia? Ignoro il nuovo sistema, che mi si vuol fare adottare; ma son bene sicura, che la correzione della vecchiezza è sempre un uffizio ingrato ed ignominioso1„. I timori del popolo supplivano a quel che la dicrezione dell’oratore avea soppresso; e le calamità che affliggevano e minacciavano il decadente Impero, venivano dai Pa-

  1. Vedasi l’Epistola 54 del Lib. X di Simmaco. Nella forma e nella disposizione dei suoi dieci libri di lettere, esso imitò Plinio il Giovane, del quale supponevano i suoi amici che uguagliasse o superasse il ricco e florido stile (Macrob. Saturnal. l. V. c. 1). Ma Simmaco è soltanto lussureggiante in vane foglie senza frutti e senza fiori. Pochi fatti e pochi sentimenti si possono trarre dal suo verboso carteggio.