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dell'impero romano cap. xviii. 349

fensive de’ Sarmati erano corte daghe, lunghe lance e pesanti archi con un turcasso di frecce. Eran ridotti alla necessità di servirsi di ossa di pesci per le punte de’ loro dardi; ma l’uso d’immergerle in un velenoso liquore che attossicava le ferite che facevano, è sufficiente per se solo a provare in essi i più selvaggi costumi; giacchè un popolo, che avesse avuto qualche sentimento d’umanità, avrebbe abborrito una pratica sì crudele, ed una nazione perita nelle arti di guerra avrebbe sdegnato un sì impotente ripiego1. Ogni volta che questi Barbari uscivano dalle loro foreste in cerca di preda, le irsute lor barbe, gli scarmigliati capelli, le pelli, delle quali eran coperti da capo a piedi, ed i lor fieri aspetti, che pareano esprimere l’innata crudeltà de’ loro animi, inspiravano a’ più inciviliti Provinciali di Roma sbigottimento ed orrore.

Il tenero Ovidio, dopo d’aver consumato la gioventù fra’ piaceri della fama e del lusso, fu condannato ad un esilio senza speranza sulle gelide rive del Danubio, dov’era esposto quasi senza difesa al furore di questi mostri selvaggi, con gli spiriti grossolani dei quali temeva che potesse un giorno confondersi la delicata sua ombra. Ne’ suoi patetici ma alle volte fem-

  1. Aspicis et mitti sub adunco toxica ferro
    Et telum caussas mortis habere duas.
                   Ovid. ex Pont. l. IV. ep. 7. v. 7.

    Vedi nelle Ricerche sopra gli Americani (Tom. II p. 236, 271) una dissertazione molto curiosa intorno a’ dardi avvelenati. Il veleno traevasi ordinariamente dal regno vegetabile; ma quello, che usavan gli Sciti, par che fosse tratto dalla vipera con una mistura di sangue umano. L’uso delle armi avvelenate, che si è trovato diffuso in ambedue i mondi, non ha mai preservato una tribù di selvaggi dalle armi di un disciplinato nemico.