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CANTO DECIMOQUARTO. 117

LXV.


     Sì canta l’empia; e ’l giovinetto al sonno
Con note invoglia sì soavi e scorte.
Quel serpe a poco a poco, e si fa donno
516Sovra i sensi di lui possente e forte.
Nè i tuoni omai destar, non ch’altri, il ponno
Da quella queta immagine di morte.
Esce d’aguato allor la falsa maga,
520E gli va sopra, di vendetta vaga.

LXVI.


     Ma quando in lui fissò lo sguardo, e vide
Come placido in vista egli respira:
E ne’ begli occhj un dolce atto che ride,
524Benchè sian chiusi, (or che fia s’ei gli gira?)
Pria s’arresta sospesa: e gli s’asside
Poscia vicina, e placar sente ogn’ira
Mentre il risguarda: e in su la vaga fronte
528Pende omai sì, che par Narciso al fonte.

LXVII.


     E quei ch’ivi sorgean vivi sudori
Accoglie lievemente in un suo velo:
E, con un dolce ventilar, gli ardori
532Gli va temprando dell’estivo Cielo.
Così (chi ’l crederia?) sopíti ardori
D’occhj nascosi distemprar quel gelo
Che s’indurava al cor più che diamante,
536E di nemica ella divenne amante.