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112 LA GERUSALEMME

LVI.


     È d’Aronte il castel, (ch’Aronte fue
Quel che mi trasse di periglio, e scorse)
Ma poichè me fuggito aver le sue
444Mortali insidie, il traditor, s’accorse;
Acceso di furor contr’ambidue,
Le sue colpe medesme in noi ritorse;
Ed ambo fece rei di quell’eccesso,
448Che commetter in me volle egli stesso.

LVII.


     Disse ch’Aronte i’ avea con doni spinto
Fra sue bevande a mescolar veneno;
Per non aver, poi ch’egli fosse estinto,
452Chi legge mi prescriva, o tenga a freno:
E ch’io seguendo un mio lascivo instinto,
Volea raccormi a mille amanti in seno.
Ahi, che fiamma dal Cielo anzi in me scenda,
456Santa Onestà, ch’io le tue leggi offenda!

LVIII.


     Ch’avara fame d’oro, e sete insieme
Del mio sangue innocente il crudo avesse,
Grave m’è si; ma via più il cor mi preme,
460Che ’l mio candido onor macchiar volesse.
L’empio, che i popolari impeti teme,
Così le sue menzogne adorna e tesse,
Chè la città, del ver dubbia e sospesa,
464Sollevata non s’armi a mia difesa.