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8 GAZZETTA MUSICALE DI MILANO La storia della serata è questa: nel primo atto applausi calorosi alla romanza del tenore, approvazione alla canzone guerresca di Marcello, cantata dal Brémond con grande sicurezza di cantante e d’attore e con molta forza di mezzi vocali: attestati di simpatia alla signora Corsi, un paggio che si esprime con garbo e canta di grazia sopra due ben tornite gambe: qualche smorfia all’aria di Margherita tagliata della metà e pure troppo lunga, attesa la voce un poco gutturale della signora Luppi, la quale vocalizza bene, gli è vero, ma non a posto sotto gli abiti della promessa sposa di Enrico IV; applausi prolungati al gran finale del secondo atto. Il famoso coro del rataplan non è andato bene causa il BoisRosè che ha tirato le masse fuori di carreggiata; il duetto fra Marcello e Valentina, uno dei migliori pezzi dell’opera, è passato sotto silenzio: benissimo il settimino; egregiamente il coro della lite, ma l’atto è terminato piuttosto freddo. Al contrario nel terzo atto è piaciuto il gran pezzo della congiura, e il famosissimo duetto è stato campo d’immensi trionfi alla Benza ed al Capponi, i quali, avendo tratto il pubblico all’entusiasmo, sono stati chiamati cinque volte al proscenio. Nel quinto atto non c’è più stato che qualche applauso al terzetto, inteso da pochi spettatori, perchè, dopo la chiusa strepitosa dell’atto precedente e stante l’ora tarda e la lunghezza di questo interminabile spartito, buona parte del pubblico s’era frettolosamente ritirato. L’orchestra è stata inappuntabile, non cosi la banda sul palco, dove certe trombe scorticavano senza misericordia le nostre povere orecchie. Anche i cori meritano elogi, e infatti alla terza sera, cambiato il soldato troppo ugonotto, s’è avuta una interpretazione più cristiana. I ballabili sono stati meschinissimi e sono riesciti un perditempo e nulla più: belle le scene, magnifico il vestiario, grette le decorazioni, scarso il comparsane. All’indomani tutta la nostra stampa politica s’è pronunziata in generale contro lo spettacolo restringendo gli elogi alla Benza ed al Capponi e ne ha cercato le cause in diversi motivi più o meno accettabili. Nessuno per altro ha detto il principale, che a parer mio si è quello avere anche i colossi meyerberiani fatto il loro tempo, come tutte le altre opere del repertorio straniero, le quali, passata la novità dell’imponenza e del prestigio esercitato dalle masse e dal dramma, finiscono per stancare le moltitudini che, avide di novità e sopratutto di melodie, corrono al teatro e vogliono assolutamente divertirsi con poca fatica di mente e colla minor possibile perdita di tempo. Ne sia prova la commedia con musica intitolata La festa in montagna che i piemontesi diretti dal Milone hanno già ripetuta 27 volte: ne sia prova l’operetta La Perichole d’Offenbach, che è l’unica risorsa dei francesi attendati allo Scribe: ne sia prova il successo ottenuto al circolo Ermione dalla farsa in musica I due Ciabattini del Ruggi, con cui quegli egregi dilettanti di canto e suono hanno saputo farsi immensamente applaudire. C. M. Venezia, 27 dicembre 1870. L’apertura del teatro La Fenice avvenuta ieri sera, volendo mantenere le storiche tradizioni del San Stefano, fu qualche cosa, sotto il punto di vista artistico, di veramente bello, fgrandioso, stupendo. Per trovarvi un riscontro bisognerebbe rimontare a molti anni addietro, e precisamente a quegli anni in cui la briosissima penna del nostro T. Locatelli, la cui perdita non è mai deplorata abbastanza, il G. Gozzi dei giorni nostri, ne faceva le relazioni con quel fino criterio, con quella gentilezza d’animo e con quella soave giovialità che erano le doti particolari di quel delicatissimo ingegno. Quantunque ei fosse una grande aspettazione; quantunque da alcune settimane non si facesse che inneggiare alla valentia dei cantanti che erano stati scritturati pelle nostre scene; quantunque i fortunati mortali che erano stati ammessi alle prove avessero, anche i più schifiltosi, detto mirabilia ai loro amici — pure l’esito superò di molto ogni prevenzione. Il Don Carlo ebbe ieri sera un trionfo tale che a pochi spartiti, su scene cotanto importanti, fu concesso di ottenere. Le bellezze peregrine di questo lavoro, che il Verdi deve aver scritto a bello studio per mostrare al mondo attonito quanto facile sia all’arte italiana di vincere anche nell’aringo delle armonie, delle moltiformi combinazioni scientifiche, delle difficoltà d’ogni fatta, chiunque volesse tentarne la prova, codeste bellezze peregrine, ripeto, vennero poste ieri sera tutte in risalto da quella schiera di veramente eletti artisti che abbiamo la fortuna di possedere oggidì. Primi tra i primi dobbiamo mettere la Stolz ed il Cotogni che si elevarono a tale altezza che a pochissimi è dato di raggiungere, a nessuno di superare. Dotata la prima di magnifica voce di vero soprano di tale estensione da toccare senz’ombra di sforzo le note più belle d’un vero contralto; sorretta da tutte quelle risorse che il lungo studio, il delicato sentire ed un’anima di fuoco possono ispirare, fu un’Elisabetta sorprendente. Dalla prima all’ultima frase essa si rivelò somma, inarrivabile artista. — Nel mentre la sua voce docile e soave ti ricerca le fibre più remote del cuore, il suo sguardo, composto a serenità, concorre aneli’ esso potentemente a trasfondertene la sensazione, e devi amare, dirò cosi, del suo amore: al contrario allorché sprigiona dall’invidiabile registro, presaghe di corruccio, di dolore, di disperazione, ben più potenti note, il dardeggiar dell’occhio fulmineo, le franche e recise movenze, tutte subordinate ad uno squisito sentimento del bello, ti trascinano spietatamente nel vortice del suo affanno. — Il punto però più saliente in cui veniva maggiormente acclamata fu la grand’aria dell’atto quinto. «Tu che le vanità conoscesti del mondo «che disse in modo meraviglioso, profondendo a piene mani gli immensi tesori d’una voce cotanto superba, e mostrando, rispetto a modi, un sorprendente magistero. Il Cotogni, che ben si può chiamare il principe dei baritoni del giorno, ha decisamente affascinato il pubblico. Questo cantante dalla voce potente e soave è veramente qualche cosa di straordinario: egli canta come pochi sanno cantare, e sia pure la sua parte irta di difficoltà, egli tutto abbatte e vince con una facilità, con un possesso che sbalordisce: in lui non travedi nè sforzo nè la più lieve fatica: sia pure talvolta il suo canto vibrato e potente, la voce ne esce tranquilla e sicura. I suoi modi sono elettissimi e sovente, non contento delle difficoltà inerenti allo spartito, egli ve ne aggiunge delle nuove sempre di ottimo gusto e pare si diverta a sfidarle. La voce di questo cantante sovrano ti lascia un’impressione perenne. Infatti chi può dimenticare quella sua frase: «Carlo mio, con me dividi Il tuo pianto, il tuo dolor! «e T altra nel terzetto dialogato: «Dato gli sia - che vi riveda, Se tornerà - salvo sarà». Finalmente chi può riprodurre a parole l’impressione che si prova udendolo in quel bellissimo canto: «Per me giunto è il dì supremo «No; la parola non basta a riprodurre sensazioni simili: bisogna udirlo e una volta udito il Cotogni non si dimentica più mai: il suo canto, specialmente a questo passo, che dovette replicare, ti lascia un’impressione incancellabile: la sua voce, per dirla alla Guerrazzi, ha le vibrazioni dell’arpa che cessò di esser tocca, vibrazioni che perdurano eterne. Il Fancelli ha bellissima voce, ma a me sembra che sarebbe più a posto nelle opere di Rossini ed in taluna del Bellini. La sua voce, più che forte, è graziosa, e pel canto verdiano abbisogna un fraseggiare largo, vibrato, potente. Egli ha modi eletti, ma inutilmente tu aspetti per tutto lo spartito uno di que’ mo