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Non m’ingannai, perchè a 5 ore e 25 minuti precisi, dopo il mezzodì, l’enorme lama aveva compita quella parte della sua terribile rivoluzione sufficiente per tagliare il poco che ancor rimaneva del mio collo.

La mia testa ruzzolò lungo le pareti del campanile, si fermò un attimo nella grondaia, poi, d’un tuffo, balzò giù in mezzo alla via.

Debbo confessare che in quel momento le mie sensazioni rivestirono il carattere il più strano, o, meglio, il più misterioso, il più inquietante, il meno comprensibile.

Quando io avevo ancora la mia testa io credeva che quella fosse il mio io, che quella fosse la vera signora Psiche Zenobia. Ebbene, no! Ora mi persuadevo che era il corpo, non il capo che costituiva la mia reale identità. Per chiarire bene le mie idee a questo riguardo, cercai la mia tabacchiera nella tasca dell’abito, ma nel prenderla e nel tentare di aspirare una presa del suo delizioso contenuto, m’accorsi subito che mi mancava un oggetto indispensabile, e quindi buttai la tabacchiera giù, alla mia testa.

Essa aspirò voluttuosamente una presa, e m’inviò un sorriso riconoscente. Poi mi indirizzò anche una allocuzione che non potei comprendere che in modo alquanto vago, mancandomi le orecchie. Sentii però abbastanza per capire che essa era sorpresa al più alto grado di vedermi ancor viva. In fine essa citò le nobili parole dell’Ariosto:

               Il pover hommy che non sera corty
               And have a combat tenty, erry, morty,