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capitolo xliii 241


turno, passeggiavano sulla piattaforma di Castel S. Elmo due individui, uno dei quali in assisa militare, vecchio maggiore, che avea principiata la sua carriera sino dal regno di Carlo III, e che millantava non so quanti anni di servizio in compagnia della sua vergine durlindana, che per fortuna dell’umanità, era tirata ogni giorno dal fodero per essere pulita soltanto.

Era di costituzione robusta, e ciò si scorgeva dall’ampio suo petto e ricca quadratura delle spalle: solo il suo volto avea un non so che di ributtante, giacchè del color rosso-peperone, esso largheggiava d’una fioritura di bottoni, certo men piacevoli alla vista de’ bottoni di rosa; il suo naso poi avea perduto ogni forma originale ed era diventato una rossa germogliante patata. Sotto l’assisa del soldato egli millantava il marziale, nelle parole e nel contegno, e senza quella sua mutria da osteria, si sarebbe potuto credere che egli avesse anche solcato qualche campo di battaglia. Ciò però non era, e la vita dell’avvinato maggiore s’era passata tranquilla nel tranquillo Castello S. Elmo, ove quarant’anni prima era entrato semplice soldato, e vi avea guadagnato a forza di devozione e di servilismo alla dinastia, le spalline granate.

L’altro era un conosciuto nostro, elegantemente vestito, avvenente della persona, ma con tutto ciò, puzzando di prete a qualunque olfato, un po’ pratico di questi nemici del genere umano.

«Non dubitate, maggiore, — disse monsignor