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306 libro quinto


cui, per avere nelle vaste paterne possessioni gran numero di piante e d’alberi fruttiferi, si proponessero a risolvere le dispute e i sentimenti sulla nutrizione delle piante e sulla loro interna struttura.

Ma, se non è degno de’ pensieri del sovrano il cambio in quanto causa di grandi cose, lo è pur troppo come effetto e segno de’ piú grandi accidenti, potendosi giustamente considerare come il polso del corpo civile della societá. Ma, per tastarlo bene, gli conviene aver due avvertenze: l’una di guardar sempre la totalitá de’ cambi del suo regno; l’altra di ricercare se per insensibili scoli ed aperture entra od esca il danaro effettivo, senza passare per lo giro de’ banchi. Quando uno Stato ha cambi alti con tutte le piazze mercantili, è male; ma, s’ei l’ha basso con una sola, s’ha poi da vedere come gli abbia questa colle altre tutte. Cosí chi nella piazza di Napoli non avvertisse al commercio che noi abbiamo colla Sicilia ed al denaro che di lá viene, forse s’ingannerebbe nel giudizio del nostro presente stato. In secondo luogo è cosa frequente che un paese, con tutta l’altezza sterminata de’ cambi, non s’impoverisca. Cosí avveniva a noi, quando il cambio con Roma era di ventidue ducati piú del centotrenta, che era il pari. Pareva dover noi restar presto esausti d’ogni moneta, e pure non si vedeva seguir tal effetto. N’era la cagione l’essere tra le province degli Abruzzi e lo Stato ecclesiastico un grandissimo traffico; tantocché, siccome le campagne romane dagli abruzzesi sono lavorate, cosí si può dire che Roma in gran parte sia dagli Abruzzi nutrita. Ogni contadino adunque, che ritornava nel Regno, conduceva seco qualche zecchino risparmiato; e cosí, senza lettere di cambio e senza che il rigurgito apparisse in sui banchi e nella piazza, il Regno si ristorava, e nella fiera di Foggia, ch’è quasi il nostro cuore, rientrava il danaro assorbito, a riconfortarlo.

Voglio qui terminare di dire del cambio, parendomi che l’internarmivi piú a dimostrare ogni sua circostanza non sia conforme all’istituto mio, che non riguarda l’istruzione degli uomini dediti a mercantare. Dirò del pari brevemente dell’agio,