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capitolo v 219

     E con tal forza addietro ingiú si mosse,
65che avería tratto seco il forte Alcide
inver’ l’inferno, credo, se non fosse
     ch’egli sguardò le braccia ardite e fide
del buon Teseo, ed egli li sobvenne,
quando alla ’ngiú cosí calar lo vide.
     70Cerber, tirato, su nel mondo venne,
forte latrando con tutti e tre i musi,
perché la mazza d’Ercole sostenne.
     Poi che fu su, tenne gli occhi suoi chiusi
ché sempre il raggio lucido è noioso
75agli occhi infermi ed alle tenebre usi.
     Quando morí il grand’Ercol virtuoso,
ché la camicia la vita li tolse,
tinta del sangue che era venenoso,
     quel can malvagio allora si disciolse,
80ché colli denti esta catena rose;
e libero fuggí dovunque vòlse.
     L’Invidia allor quiritta questa pose
in questo loco, ch’a lei è subietto;
ed halla qui tra l’altre infernal cose.—
     85Minerva appena a me questo avea detto,
ch’io cominciai udire il trino abbaio
di Cerber, cane orrendo e maladetto.
     E come un gran rumor, che da primaio
confuso pare e, quanto s’avvicina,
90tanto egli par piú vero ed anco maio,
     cosí facea del can la gran ruina.
E po’ el vidi venir con tre gran bocche,
correndo giú per quella piaggia china.
     — Guarda— disse la dea,— che non ti tocche;
95ché, s’e’ la bava addosso altrui attacca,
mestier non è che mai piú cibo imbocche.—
     Le fiere gole, con che ’l cibo insacca,
quando latrava, parean tre gran tane,
vermiglie come sangue e come lacca.