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selva terza 359


TRIPERUNO


A l’increpar umile del mio Apollo,
come uom che cade e sú vergogna l’erge,
mi rilevai, mirando quanto armollo
di sua potenzia Dio, che, ovunque asperge
li aurati raggi, il mondo fa satollo [Dies et nox.]
di caldo lume, e ratto che s’immerge
a l’altro uscito giá d’un emispero,
imbianca quello, e questo lascia nero.

Ma non sí tosto il giorno fu dal lume
solar causato e nanti mi rifulse,
che lá una fonte, qua bagnar un fiume
vidi le ripe sue da l'onde impulse:
parte stagnarsi e mitigar lor schiume,
parte volgersi al mar e l'acque insulse
far salse, ove l'orribil Oceáno
distende l’ampie braccia di luntano.

In mille parti ruppesi la terra,
donde montagne alpestri al ciel ne usciro.
Quinci una valle, quindi un lago serra
de’ colli e piagge qualche aprico giro.
L’alto profundo mar giá non pur erra
la sua consorte che rotonda miro,
anzi, fatta la via per calle stretto,
in grembo a lei si fece agiato letto.

Giá d’erbe, fiori, piante e de’ virgulti
la terra d’ogn’intorno si verdeggia;
quai poggi erbosi, e quai lor gioghi occulti
han di frondose cime, e qual pareggia
monte le nebbie. Ma de’ boschi adulti
ecco giá sbuca l’infinita greggia
de gli animali: chi presto, chi pegro,
chi fier, chi mansueto, o bianco o negro.