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346 caos del triperuno


Qual è chi ’l creda, ch’oggi tanta insania
la nostra veritá si prema e vapoli?
S’io mi diparto a l’umile Betania
per alto mar da Roma o sia da Napoli,
ecco a man manca dal Parnasso Urania
scopremi l’Elicona, ove mi attrapoli.
Ben sa che a lei m’avvento, benché ’l Tevere [Metaphorice.]
lasciassi per Giordan, quell’acque a bevere.

Acque sí dolci! quanto piú bevémone,
piú a la tantalea sete si rinfrescano!
Quivi l’argute ninfe lacedemone [«Qui addit scientiam addit dolorem». Eccl.]
a gli ami occulti nostre voglie adescano;
cosí non mai dal bianco il negro demone
sceglier mi so, non mai l'onde si pescano,
cui trasser a la destra del navigio
Piero e Gioan de’ pesci il gran prodigio.

Però dal mio Iesú se detto fiami
giammai: — Di poca fede, or perché dubiti? —
scusarmi non saprò, quando che siami
concesso por le dita fin ai cubiti
nel suo costato e trarvi ’l ben, che diami
fidi pensieri e al vero creder subiti.
Non lece dunque piú d’Egitto in gremio
starsi, ma gir con Móse al certo premio.

Assai d’oro forniti e gemme carichi, [Spoliant Aegyptum qui e libris philosophorum eloquentia tantum eligunt.]
di Faraon scampiam omai la furia;
né sí men gravi paran i rammarichi
e pene che ci dava l'empia curia,
che nel deserto alcun de noi prevarichi,
dicendo in faccia a Móse questa ingiuria:
— Mancaron entro Egitto forse i tumuli,
ché morir noi per queste valli accumuli? —