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Farro odiava tutte le vecchie arti, tutte le religioni, tutte le filosofie: sentiva la grandiosità delle costruzioni in cemento armato, il fàscino dei treni che cantano sui fili musicali delle rotaie, la meraviglia meccanica delle comodità.

Moriva d’inutilità ai concerti ed alle opere musicali — entusiasmandosi ai jazz-band e ai varietà, colorati di luci e di danze, ricchi di movimento, di azione, di vita.

Farro, in abito nero, nelle geometrie miracolose della città, innamorato della sua arte e della sua automobile. Farro, che guardava la luce notturna di un fanale più brillante della luna, che rideva con l’orgoglio della propria superiorità. Farro, che ogni tanto, udendo un tango salire dalla tristezza solitaria di qualche strada, piegava il capo terribilmente malato di nostalgia e subito dopo, allegramente, viveva con gioia le sensazioni della modernità.


Nelle sere che la stanchezza pesava troppo sui nervi, la sua anima lo consolava, parlandogli piano sul cuore:

— «Ricordi le belle notti argentine, quando respiravi, sulla terrazza deserta dell’Albergo, il profumo della pampa e il profumo femminile di Sona? tu ài ancora negli occhi il riverbero del suo abito rosso e quando il pensiero s’inginocchia per pregare questa strana malinconia ti sembra di riudire l’accordo della chitarra spagnola».

«Quanta tristezza nei ritmi barbari, singhiozzanti, che agonizzavano nei cieli tropicali: c’era la