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bene le favole vaghe ci abbondino più che le notizie sicure ».

Non c’è dunque da meravigliarsi se Livio non si è scervellato, come gli storici moderni, per scoprire quella briciola di vero che poteva nascondersi sotto i miti della fondazione di Roma. In quel mondo lontano e solatio, come quello di una leggenda, Livio si riposa delle miserie e delle tragedie contemporanee, che sono tristi, perchè vere; si diverte a giuocare con quegli eroi vestiti di corazze lustrate, e che han l’aria, attardandosi fra Torquato e Bruto, di pensare con tristezza al momento della separazione. Egli non cerca d’infonder in quei personaggi una vita reale, che possa romper l’incanto di quel dolce e quieto artifizio; ma li toglie di peso dalla leggenda, con tutto l’ingenuo ingrandimento proprio del mito, che ammette solo santi o ribaldi; e se per un verso li dipinge così lontani dai moderni, che non è possibile avere neppur un’illusione di vita, dall’altra li veste col linguaggio e i costumi del suo tempo, come i pittori del quattrocento infilavano agli eroi della Bibbia il giustacuore e le calze lunghe. Così, quei soldati sono oratori espertissimi, che hanno certo letto i libri di Cicerone sull’arte del dire, e improvvisano ben composte orazioni, feconde in gradevoli simmetrie ogni volta che capita, e se non capita spontaneamente, lo storico pensa a facilitare l’avvento, una buona occasione — e ognuno capisce che di solennità politiche, religiose o militari ce n’erano fin che se ne voleva. La narrazione cammina sempre sul-