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spazi intermedi, e riflesse dentro a strani vapori; là paesi che vanno e tornano, e giardini che salgono e discendono, secondo che le immagini vengono dall’etere frastagliate.

L’Imperatore. Ad ogni modo, sentomi tratto a sospettare! Veggo lampeggiare le picche; veggo, sulle armi scintillanti della nostra falange, correre di su di giù vive e pronte fiammelle; e tutto questo mi riesce un po’ troppo fantastico e singolare.

Fausto. T’inganni, o sire, nel tuo supposto. Le son quelle vestigie di enti ideali che andarono smarriti, o un riflesso dei Dioscuri, scongiurati ad ogni tratto da quanti son marinai. Fanno essi qui ragunandosi gli ultimi loro lampeggi.

L’Imperatore. Or dimmi; a chi andiam noi debitori, se la Natura ne colma de’ suoi prodigi?

Mefistofele. E a chi dunque se non al supremo Signore che le tue sorti tiensi chiuse nel petto? Le violenti minacce de’ tuoi avversari hanno in lui suscitata la più viva commozione, talchè per sua bontà ei vuol preservarti a qualunque costo.

L’Imperatore. Tripudiavano essi menandomi attorno con isplendida pompa. Aveva allora assai credito, e volendo farne esperimento, deliberai, senza troppo riflettervi, di dare un po’di brio alla mia barba grigia. Una tal novità ebbe mandata a male non so che festa clericale, e a dirla, non rimasi gran fatto nella buona grazia di coloro. Come mai adesso, dopo tant’anni, avrei ad esserne favorito in guisa segnalata cotanto?

Fausto. Un generoso benefizio non lascia mai di produrre i suoi frutti con usura. Volgi in alto lo