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nella sospensione della grida per gli affari a termine, che permetteva basse manovre per deprimere il mercato e trarre in inganno gl’ingenui; la seconda era quella di stabilire nel regolamento di Borsa il così detto diritto di sconto, ossia la facoltà del compratore, rinunziando agli interessi del mese, di chiedere e pagare i valori comprati per la fine di quel mese istesso, prima della scadenza. Queste due misure, ma specialmente la seconda, destarono un vero pànico nella falange dei devastatori della Borsa.

Inoltre il Governo impensierito delle notizie allarmanti sulle nostre condizioni finanziarie che alcuni corrispondenti trasmettevano da Roma all’estero, notizie sempre esagerate e spesso inventate di sana pianta, e che recavano grave danno al credito inducendo i possessori dei nostri titoli a venderli deprezzandoli, espulse da Roma il Grünwald corrispondente della Frankfurter Zeitung e lo Chénard del Figaro. Protestarono molti giornalisti contro quel provvedimento, vi furono interpellanze alla Camera di Cavallotti e Imbriani, alle quali il Crispi rispose dimostrando che si trattava di una vera cospirazione contro l’Italia. Dopo quelle espulsioni, la guerra contro il nostro credito si fece meno acerba, e i corrispondenti di giornali esteri, se vollero continuare a risiedere a Roma, dovettero mostrarsi più cauti nello scrivere.

Un fatto che appassionò Roma fu la venuta dei cow-boys del colonnello Cody che dettero diversi spettacoli in Prati. Il pubblico non credeva che i cavalli che prendevano al laccio, sellavano e poi inforcavano fossero davvero indomiti, e gli americani allora si fecero condurre i cavalli della campagna romana e riuscirono a montarne uno del Tanlongo. I butteri, punti nel viso, scommessero di montare i cavalli del colonnello Cody, e quelli del duca di Sermoneta vinsero. Queste gare richiamavano al Circo una folla immensa, assai maggiore di quella che assisteva qualche tempo dopo alle Corride dei Torri fuori di Porta del Popolo.

In breve volger di tempo erano morti tre deputati: il Franzosini, il Petruccelli della Gattina ed Aurelio Saffi. A quest’ultimo, oltre la bella commemorazione che gli fu fatta dal presidente alla Camera, un’altra vollero fargliene i repubblicani ai primi di maggio. Le società si riunirono in piazza del Popolo recando il busto del defunto e 57 bandiere. Di quale indole fosse la commemorazione, lo dissero chiaro i ripetuti gridi di: «Viva la rivoluzione» emessi sotto le finestre della questura. In quel punto del Corso tutte le bandiere si abbassarono come pure sotto l’ambasciata d’Austria, in piazza Venezia. Ad attendere il busto in Campidoglio stavano il sindaco Armellini, gli assessori Grimaldi, Ruspoli, Roseo, Cruciani-Aliprandi, Lorenzini, Ranzi, Galluppi e de Angelis, nonché i consiglieri eletti con altri voti che quelli della Unione Romana. Il sindaco, nel ricevere il busto di Aurelio Saffi, disse:


«La civica rappresentanza accoglie con affetto la venerata effige del grande patriota Aurelio Saffi qui in Campidoglio fra i sommi fattori della indipendenza italiana, suoi emuli più che suoi avversari. Noi la conserveremo questa effige, come ricordo di quel grande, che accolse in sè tutte le virtù cittadine e fu grande parte nei fasti gloriosi di Roma risorta, incancellabile esempio di patriottismo per noi e per le future generazioni».


Le incertezze per il concorso governativo a vantaggio di Roma continuavano, quando, discutendosi alla Camera il bilancio dei lavori pubblici, fu presentato il progetto per la sistemazione del Tevere. Molti oratori presero la parola e fu rilevato come da 60 milioni di preventivo per quei lavori, si fosse arrivati a 105, perchè 45 appunto ne chiedeva il nuovo progetto, ma diversi deputati osservarono la stranezza del fatto che, fossero addossati a Roma tre ottavi della nuova spesa