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Il 31 si sparse per la capitale la notizia dell’improvvisa morte dell’arciduca Rodolfo, erede del trono austro-ungherese, e la notizia di quella morte commosse la città, ma la commozione fu ben più profonda quando si seppe la tragica fine del Principe e le tragiche cause che l’avevano spinto al suicidio. La Corte sospese i suoi balli, la Camera e il Senato si fecero interpreti dei sentimenti del popolo presso la nazione alleata.

La mattina dell’8 febbraio una commissione d’operai disoccupati, già ricevuta al ministero dell’interno, si recava dal sindaco per interessarlo alla questione operaia. Il Guiccioli, che era stato nominato sindaco effettivo, rispose che il bilancio del comune non gli permetteva di fare promesse, ma che per quanto gli era possibile si sarebbe occupato di loro. La commissione fu soddisfatta, ma non così le centinaia di disoccupati che la attendevano a piazza Cavour.

Al grido di «Viva la rivoluzione!» quei disgraziati dopo aver forzato il ponte di Ripetta percorsero la città armati di bastoni, selci, sbarre di ferro mandando in frantumi i lampioni, sfondando le vetrine, saccheggiando i negozi e ferendo i cittadini, senza che carabinieri nè guardie, sorpresi da quella sommossa, riuscissero ad impedire il minimo danno. La città era costernata, e in preda al pànico rimase per più giorni vedendo tanta rovina, e le interpellanze che piovvero alla presidenza della Camera mostrarono quanto i cittadini non si sapessero spiegare la ingiustificabile condotta del Governo, che non aveva saputo nè prevedere nè soffocare la ribellione. Il Crispi rispose:

«Nessuno più di me deplora gli atti vandalici che hanno tormentato ieri la città di Roma. Le origini ne sono diverse e non tutte pure».

Cercò di giustificare l’opera del Governo; egli disse che esso farebbe il possibile, dentro i limiti della legge, per aiutare a liquidare la crisi; che i colpevoli sarebbero puniti; e poi domandò un voto politico perchè non voleva sfuggire a nessuna responsabilità.

Giudicatemi - disse - e il 16, dopo infiniti discorsi pieni di sfiducia, aggiungeva:

«Combattendo me si vuol combattere non l’uomo ma il sistema, cioè la politica nazionale.... Il dilemma è questo: o merito o non merito la vostra fiducia; decidete».

E la Camera decise con 147 voti di maggioranza che il Crispi rimanesse al suo posto.

La lotta era stata aspra e si inasprì maggiormente nella discussione dei provvedimenti finanziari, tanto che il Crispi, che aveva invocato un nuovo voto di fiducia, il 1° marzo rassegno le dimissioni del suo gabinetto nelle mani del Re.

La crise durò fino al giorno 8. Come durante tutte le crisi fu al Quirinale un andare e venire di deputati e senatori, e fini con un rimpasto ministeriale nel quale al posto del Grimaldi alle finanze entro il Seismit-Doda, al giovane ministero del tesoro il Giolitti, in sostituzione del senatore Perazzi, e al neonato ministero delle poste e telegrafi il Lacava.

Il 14 i Sovrani posero la prima pietra del palazzo di Giustizia, e il 27 essi aprivano la Mostra Nazionale di Ceramica al palazzo delle Belle Arti, e questa mostra riuscì non solo bene ordinata, e importante per tanti tesori di antiche maioliche ivi esposti, ma utile perchè fece conoscere fabbriche fino allora sconosciute, e alcune officine, come quelle del Museo artistico-industriale di Napoli, alle quali era riserbato un glorioso avvenire.

In quella quaresima a San Carlo al Corso predicò padre Agostino e la gente accorreva numerosa a sentirlo, e le sue prediche interessarono i giornali e sollevarono proteste più o meno pacifiche, poichè il 1° aprile veniva fatta esplodere in chiesa una castagnola, che se non ferì nessuno, spaventò peraltro terribilmente gli uditori.