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due stanzette al terzo piano del palazzo e quasi tutto il giorno stava in computisteria, lavorando col suo amministratore, il signor Eugenio Visconti, seduto su una sedia di paglia davanti a una scrivania, che sarebbe parsa incomoda a uno scrivano qualsiasi. Mangiava sempre solo, eccettuato i giorni di solennità e di feste di famiglia. La mattina si nutriva di caffè e latte e di carne fredda, la sera di ministra, lesso, un piatto con legumi e una bottiglia di vino. Gli era parso un lusso di dover sostituire per ordine del medico, al vino paesano, una bottiglietta di Bordeaux. Ogni mattina si alzava alle 8, andava in chiesa, perchè era religiosissimo e diceva di voler esser sempre pronto a comparire dinanzi a Dio, e dopo faceva una passeggiata in campagna. Fu al ritorno da una di quelle passeggiate, e quando dal quartiere della figlia si faceva condurre nel suo, che venne colpito dal male, al quale soccombè dopo una mezz’ora.

Dopo la morte, il corpo di don Alessandro rimase nella cameretta ov’egli era spirato. Soltanto il giorno dopo fu portato nella galleria, che il defunto amava tanto e paventava di vedere demolita, e dove ogni domenica passava alcune ore dinanzi alle sue care opere d’arte. La salma era rivestita dell’umile saio del francescano, ordine al quale apparteneva come terziario. Il popolo fu ammesso a visitarla. Nessuna pompa terrena circondava la salma, a piedi della quale erano posate due corone della famiglia, e al disopra del capo era appesa quella enorme inviata dalla Giunta municipale su cui stava scritto soltanto «Roma».

L’associazione del cadavere fu fatta nella chiesa dei SS. Apostoli affollata di parenti, di amici e di popolo. Monsignor Lenti, vice-gerente di Roma, ufficiava; fu celebrata dai cantori della cappella pontificia, la messa di Palestrina a sole voci, e quindi il corpo venne posto in un carro funebre e portato a Castel Gandolfo, ove fu sepolto accanto a quello della moglie.

Il testamento del principe fu l’epilogo di tutta la sua vita di uomo giusto, previdente e benefico. Lasciò intatte le dotazioni agli istituti di carità, e divise il ricco patrimonio fra la figlia e il primogenito del primogenito di lei.

Ne cito un brano caratteristico diretto a donna Anna Maria:

«A te e al Duca tuo consorte raccomando pure di educare i figli nel senso di far onore alla patria, senza che abbiano a confondere mai questo sentimento con quell’eccesso di liberalismo che il più delle volte degenera in licenza e libertinaggio».

Alle molte vacanze di segretariati generali venne nell’inverno ad aggiungersi quella del ministero della Pubblica Istruzione per le dimissioni dell’on. Martini, che ritornò poco dopo al giornalismo e fece una serie di corrispondenze al Popolo Romano sulla esposizione di Anversa, e pareva dovesse ritornarci stabilmente fondando una rivista. Quel divisamento non ebbe effetto, ed egli continuò a dedicare l’intelligenza ai lavori parlamentari,

La Corte vide sparire in primavera un altro dei funzionari devoti alla dinastia. Morì il conte Panissera di Veglio, prefetto di Palazzo e gran Maestro delle Cerimonie. Era ancora giovane e non limitava le sue occupazioni a dirigere i servizi di Corte. Come suo cognato, il marchese di Villamarina, si dedicava alle arti, era presidente dell’Accademia Albertina di Torino, aveva disegnato il monumento per il Frèjus e aveva avuto parte importante nella commissione per il monumento a Vittorio Emanuele in Campidoglio. Il Re gli voleva molto bene e ordinò che gli fossero resi onori solenni.

La mediazione per la vertenza delle Caroline non aveva fruttato soltanto al Papa una bella lettera del principe di Bismarck; l’imperatore Guglielmo per mezzo del suo inviato signor von Schloezer mandò a Leone una croce pettorale riccamente tempestata di rubini e brillanti nel cui